L’arminuta non ha nome, da un giorno all’altro non ha più casa, non ha più una madre né un padre o meglio, non ha più quelli che ha avuto per tredici anni ma, al loro posto, due estranei silenziosi e bruschi, già genitori di altri cinque figli, da un neonato a un diciassettenne. L’arminuta è una giovane ragazza dai capelli rossi lunghi fin sulle spalle, è beneducata, sa stare al posto suo, non è aggressiva, non si lascia umiliare, reagisce ma con la ragionevolezza di qualcuno che cerca il suo posto nel mondo dopo essere stata disorientata nel peggiore e più violento dei modi: tutto d’un tratto e senza spiegazioni valide.

L’arminuta, interpretata degnamente dalla giovane Sofia Fiore, entra fluida in una quotidianità non sua, in mezzo allo sporco, alla condivisione di un letto singolo con Adriana, la sorellina decenne che fa ancora la pipì al letto, ai tortiglioni al sugo a ogni pasto. L’arminuta si adegua ma non si piega, non si spiega la durezza di Adalgisa, che non si fa più viva, se non con buste gialle contenenti dei soldi con i quali una volta porta Vincenzo, il fratello maggiore, e Adriana, scudiera di avventure peripezie e coperture reciproche al mare dove fino a poco prima ha abitato.

IL CONTRASTO tra mare e montagna contrapposto al conflitto ricchezza e povertà assurge a paradigma di stili di vita e possibilità di evoluzione degli esseri umani. Nella famiglia montanara non si parla, non si esprime gioia ma neppure troppo il dolore, non si esce da uno schema ritmico serrato di lavoro nutrimento riposo. Non c’è tempo da perdere a giocare, a scrivere, a leggere: quelle sono le cose dei ricchi.

L’arminuta è tratto dall’omonimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio che ha vinto il premio Campiello nel 2017: da un soggetto della scrittrice, il film è sceneggiato dall’autrice con Monica Zapelli rispettando con fedeltà i silenzi e la sospensione, costanti ineluttabili della trama del libro. I caratteri principali, duri come le pietre che li circondano,mantengono, sulla carta come sulla celluloide, un senso di spaesamento reciproco e diffuso rendendoli marionette di un invisibile Mangiafuoco che maltratta la disonestà, socchiude gli occhi davanti alla debolezza umana, premia la costanza, la bontà, la solidarietà.

IN UNO SPECCHIO di personaggi femminili predominanti – la madre di città contro la madre di montagna, la figlia adottata borghese contro la figlia semplice e concreta – la storia della «ritornata» (questo vuol dire arminuta in abruzzese) narra con uso sapiente del non detto una vicenda curiosa, forse non tanto insolita in anni neppure così lontani (è ambientata nel 1975): quando una donna non riusciva ad avere figli una parente molto fertile gliene passava uno sotto banco, con accordi verbali e spese pagate: i prezzi psicologici subiti dai ragazzini non venivano presi in considerazione.

Con regia asciutta e rigorosa (Giuseppe Bonito), fedeltà all’origine letteraria, musiche ben punteggiate (Giuliano Taviani, Carmelo Travia), un cast felice di visi non abusati, il film viene goduto dallo spettatore con gli occhi spalancati e i sensi accesi.