L’uno mette insieme pezzi di ferro, plastica, lampade e ogni sorta di utensile abbandonato, trasformando il tutto in personaggi dotati di un’anima che muove dalla strada. L’altro racconta da sempre il lato in ombra della realtà, le storie di sconfitti indomiti che affermano la propria umanità resistendo, al lavoro e dentro il lavoro, allo sfruttamento, la repressione, la dittatura. Il loro punto d’incontro, e non potrebbe forse essere altrimenti, ha per titolo L’armata dei senzatetto, il bel libro pubblicato da Contrasto (Collana In Parole, pp. 145, 30 fotografie a colori, euro 22) nel quale Ascanio Celestini dà voce alle sculture di Giovanni Albanese.

Quella che prende corpo lungo le pagine del volume è una brigata pacifica di «creature» salvate da officine e sfasciacarrozze. Una traduzione materiale di quel «racconto della marginalità» che Celestini pone alla base del suo intero lavoro teatrale. Del resto, i reietti di Albanese, artista pugliese trapiantato da molti anni a Roma dove insegna all’Accademia di Belle Arti, tracciano l’orizzonte di un’umanità dolente e mai doma, tra una molla fuori uso e un parafango ammaccato: «una forma di barricata, ma con i mobili Luigi XVI», come spiega l’autore.

UNA PRESENZA SCOMODA per il solo fatto di esserci, di rifiutare l’oblio in una discarica improvvisata o in un più accogliente, ma solo a prima vista, mercatino dell’usato.

Ce n’è abbastanza per Celestini per tracciare le biografie di questi «ripescati a fiume» della Storia che «si muovono, si accendono, ballano, rumoreggiano. Sono vivi, ma non proprio come dicono i vocabolari. Vivi senza vene e cuori che pompano sangue, senza stomaci divoratori. Senza documenti da mostrare alla guardie, senza una casa di proprietà. Sono un’armata di senza tetto».

Un po’ come avviene ne Le città invisibili di Calvino, in questo catalogo fantasmagorico trovano posto sia la fantasia di Albanese e Celestini che le possibili, e ricercate, proiezioni dei lettori/spettatori. C’è spazio per ogni sorta di personaggi.

Da un attualissimo «Vota Antonio» che dal suo grammofono pontifica, pazzo tra i pazzi, che «non è gente alla quale affideresti la normale amministrazione di un supermercato e forse nemmeno un cane da portare a passeggio». A «Call center» cui si rivolge direttamente Celestini: «Vieni a casa mia, dico, attraversa la linea d’aria. Oggi il telefono è chiuso, ma la porta è aperta». Fino a un tipo buffo che ha un naso da punta di trapano, «uno che fa i buchi nell’acqua», ma che «già dopo il settimo buco si accorge che l’acqua non è più bucata di quando non l’aveva nemmeno cominciata a bucare».

NON SONO PIÙ OGGETTI, tutti insieme compongono piuttosto una fila chiassosa e sanamente indisciplinata di esseri in transito, che resistono alla fine e a chi li vuole dimenticare. «Per lui una bicicletta rotta non è destinata alla discarica, ma gli parla – scrive Celestini del lavoro di Albanese – Dice “parlano a prescindere da me”. Non esistono oggetti muti, ma solo persone sorde che non li sanno ascoltare». Difficile credere che si stia parlando soltanto di pezzi di ferro.