Cammino su una strada larga della Romanina, borgata di Roma, semi deserta battuta dal vento di tramontana. Sui cancelli delle abitazioni niente indica che tra queste case c’è un luogo dove le donne maltrattate possano trovare aiuto. Invece il centro antiviolenza Marie Anne Erize, da qualche tempo, è stato trasferito qui, in un edificio di recente costruzione. Stefania Catallo ne è la presidentessa e una delle fondatrici. Con lei iniziamo una chiacchierata su questa esperienza nata nel 2011 a Tor bella monaca, che ha subìto gravi intimidazioni nel 2017 con la devastazione dei locali del centro e il danneggiamento degli abiti da sposa donati al centro da affittare a chi ne faccia richiesta.
Le chiedo se sia soddisfatta della nuova sistemazione. Mi risponde di sì, ovviamente, il centro è troppo importante per le donne che da tempo lo frequentano. Purtroppo la sua sopravvivenza ha una storia travagliata che ancora non si è conclusa del tutto in modo definitivo. Nel 2017, difatti, il centro antiviolenza di via Aspertini aveva ricevuto una ingiunzione di sfratto da parte del municipio di appartenenza che, con una mozione, era rientrato in possesso di alcuni locali tra i quali c’erano anche quelli del centro pure se, come ci dice Stefania, in quei locali di Tor Bella Monaca, territorio che presenta grandi criticità da un punto di vista sociale, fino a oggi si sono rivolte circa 2000 donne. È stato poi il Tribunale di sorveglianza per le misure speciali che ha assegnato al centro Marie Anne Erize nuovi spazi dove continuare le attività e dove traslocare due parti importanti, la sartoria solidale e la biblioteca di circa 10 mila volumi che, da qualche anno, è gemellata con quella di Buenos Aires. Recentemente lo stesso Tribunale di Roma ha destinato al centro Erize un’ulteriore locazione, con un provvedimento firmato l’8 febbraio scorso, per prendere possesso di una villa requisita nella periferia est di Roma.
Da cosa ha preso origine l’idea di aprire un punto di aiuto per le donne, a Tor Bella Monaca?
Il centro di aiuto nasce nel 2011 da un bisogno di ordine pratico, ovvero dal fatto che la terapia psicologica necessaria a chi è colpito da patologie che minano stabilità mentale e affettiva è assai costosa, si prolunga nel tempo e può rappresentare un costo non sostenibile. Queste variabili erano particolarmente diffuse tra coloro che vivevano in situazioni di disagio sociale e economico, specchio in cui talvolta si rifletteva la vita di chi abitava quella periferia. D’altro canto, proprio il particolare stato di svantaggio e degrado rendeva necessaria la presenza di un centro di ascolto e aiuto. Da questa prima idea si formò un gruppo di professionisti, che si sono avvicendati nel tempo, aprendo a Tor Bella Monaca un luogo in cui accogliere chi aveva necessità di essere ascoltato e sostenuto. Il centro antiviolenza non era ancora nato, ma iniziava a avere le sue basi in un piccolo gruppo femminile di auto-mutuo-aiuto che si riuniva ogni settimana, di solito il giovedì pomeriggio, e che andava aumentando di numero. Lentamente, la voce si spargeva e le donne che venivano a conoscenza di questo posto, iniziarono a affluire sempre di più. Da questo primo nucleo di ascolto, il passo successivo verso una specificità più delineata fu breve perché le vicende che venivano raccontate dalle donne che bussavano alla nostra porta erano soprattutto storie di violenza.
Chi lavora al centro?
Al momento me ne occupo io stessa come figura di counselor, c’è l’avvocata Roberta Gentileschi, la psicoterapeuta Rita Zumbo e altre figure professionali disponibili a intervenire e collaborare su richiesta, secondo le necessità. Poi c’è anche una parte amministrativa che si occupa degli aspetti burocratici e che viene seguita dalla vicepresidente.
Nel 2016 il centro, dopo una prima procedura di sfratto, cambia sede e viene intitolato a Marie Anne Erize…
Marie Anne era una indossatrice argentina che fu uccisa dalla dittatura militare che annientò la democrazia di quel Paese dal 1976 al 1984. Venne rapita da un gruppo paramilitare. Portata in un centro di detenzione clandestina, «la Marquesita», stuprata e uccisa nel 1982 a 24 anni. La sua idea di impegno civile l’aveva trasferita dalle passerelle delle sfilate alle strade di Buenos Aires, dove combatteva per ristabilire i diritti civili del popolo argentino. Per molto tempo non si seppe nulla del suo destino finché i suoi aguzzini vennero processati. Uno di questi, Jorge Oliveira, durante un processo ai genocidi di quel Paese, sostenne di ricordarsi bene di Marie Anne, che lui stesso, disse, stuprò per primo lasciandola poi alla violenza degli altri carnefici.
Nel centro c’è anche un laboratorio di sartoria solidale che custodisce abiti da sposa usati, donati da donne. Come nasce il progetto del riuso di questi abiti da sposa?
L’idea nasce per caso nel 2016, quando nel centro antiviolenza viene aperta la sartoria solidale. In quell’anno, la Fondazione Up, una fondazione francese, dà un contributo economico al centro proprio sul progetto di sartoria solidale grazie al quale poter offrire una forma di aiuto economico alle donne in difficoltà. Presto inizia a circolare voce che nella borgata esiste una nuova realtà di supporto alle donne che, in cambio di lavori di riparazione degli abiti e di sartoria, può sostenerle con un piccolo reddito.
È stato difficile avere la fiducia delle donne che vivevano situazioni di disagio, avvicinarle al centro?
All’inizio, non uscivano dalle loro abitazioni per venire da noi. Anche se era importante avere un piccolo reddito, la vergogna di portare allo scoperto una situazione di difficoltà era prevalente. Ma era anche maggiore la paura che i compagni violenti potessero scoprire la loro frequentazione del centro. Per lo più io stessa facevo da tramite per stabilire un canale tra le richieste di intervento sugli abiti e le donne che realizzavano a casa i lavori di sartoria.
Torniamo agli abiti da sposa
Un giorno, una donna bussò alla porta della sartoria chiedendomi se accettavamo in donazione anche abiti da sposa. Senza pensare troppo le risposi di sì e la signora qualche tempo dopo ci consegnò il suo abito da sposa, usato molti anni prima ma ancora molto bello. Difatti ancora lo conserviamo, anche a testimonianza della felice intuizione che ha dato origine al progetto. Il mercoledì successivo, pure la sorella della donna portò il proprio e quello della madre.
Iniziai a vedere la potenzialità del passaparola, essendo il centro e la sartoria adiacenti al mercato rionale che si svolge proprio di mercoledì. Dopodiché cominciai a usare anche i canali tecnologici, mettendo annunci sui gruppi Facebook di regalo e subito cominciarono a arrivare altri abiti. Poi ho lanciato una call sulla piattaforma Change.org dove, in precedenza, il centro aveva attivato una petizione on line contro la minaccia di chiusura.
In che modo le donne inviavano gli abiti?
Rispondevano da tutta Italia. E spedivano i loro vestiti da sposa usati. Gli abiti che arrivavano al centro erano, di solito, accompagnati dalle lettere delle donatrici che raccontavano le loro storie personali. Le conservo ancora. Un giorno arrivò una lettera insieme a un abito meraviglioso, la donna raccontava che quel vestito non avrebbe mai voluto indossarlo. Era stata costretta dalla suocera e dal marito che, poco dopo il matrimonio, si era rivelato un uomo violento che la picchiava. Per lei quel vestito bellissimo doveva potersi riscattare e voleva restituirgli una nuova vita facendolo indossare a chi, nel matrimonio, aveva riposto la scommessa della propria felicità accanto a un uomo che la sapesse vedere non come una bambola in pizzi e crinoline.
Queste lettere hanno fatto sì che si stabilissero dei contatti tra voi?
Sì, con alcune sono entrata in corrispondenza. Anche perché capita che qualche donna sia un personaggio, una personalità, per meglio dire. Per esempio, mi viene in mente Carla Milli: l’anno scorso mi ha scritto e mi ha inviato il suo abito. Carla proviene da una famiglia di partigiani, il papà era nella Resistenza e fu quasi messo in esilio dal regime fascista, il suo desiderio era di donare questo abito a chi potesse apprezzare la storia di lotta della sua famiglia. Scrisse una bella lettera in cui raccontava, attraverso l’abito, gli avvenimenti che avevano accompagnato le proprie vicende familiari. La sua lettera ha rappresentato in modo efficace la metafora dell’idea del nostro progetto di riuso degli abiti di nozze, il cuci e ricuci con cui vogliamo ridare una vita nuova ai vestiti a partire dal loro bagaglio di ricordi e di storie di vita vissuta.
Il cuci e ricuci deve significare questo: ogni abito usato si riappropria della propria funzione e, a partire dal passato, torna a prendere vita nel presente. Gli abiti donati più di recente vengono dati in prestito alle donne che non possono investire troppi soldi nell’acquisto di un capo che, in genere, nelle versioni più economiche non costa meno di 500 euro. Il centro, invece, chiede a chi vuole prenderlo in prestito 150 euro di affitto e la pulizia del vestito. Gli altri abiti, quelli donati negli anni precedenti, riprendono vita attraverso le sfilate che organizziamo per mantenere viva l’attenzione sui temi femminili legati alla violenza di genere e sulle sorti del nostro centro. La prima sfilata è stata organizzata nel 2016 all’università popolare, l’Upter. È stata molto partecipata, abbiamo riscontrato un grande interesse suscitato in parte dal pretesto dell’evento ma anche dalla sensibilità verso le tematiche femminili a noi care.
Le indossatrici, dalle prime sfilate fino a quelle attuali, sono tutte donne che nella vita hanno occupazioni che esulano dal mondo della moda, spesso sono figure professionali che prestano il loro volto e il loro corpo per dare voce a quelle donne che dentro le case, nell’ombra delle stanze, sono costrette a sottostare a compagni violenti.
Quanti abiti sono stati donati alla sartoria del centro antiviolenza?
Negli anni sono stati circa 70 i vestiti entrati nell’armadio della memoria del centro Erize. Un patrimonio che ci restituisce un colpo d’occhio immediato e realistico dei cambiamenti sociali che hanno accompagnato l’Italia dagli anni 50 a oggi, un micro-museo che, grazie ai gusti della moda, ci fa capire quanto sia mutata la visione del corpo femminile nel corso del tempo. Per esempio, negli anni 50 le donne erano molto coperte, l’abito di nozze prevedeva spesso un velo, maniche lunghe, colletto. Successivamente, grazie a una maggiore presa di coscienza femminile, gli abiti si destrutturano: la linea a crinoline, che copriva il corpo perché si allargava all’altezza della vita, con l’avvento degli anni 70 cede il campo alla valorizzazione della bellezza del corpo femminile che non vuole più essere celato ma esaltato dalle linee morbide, scivolate, dalle trasparenze, dai colori, i motivi floreali, le maniche alla brasiliana. Poi, negli anni 2000 gli abiti diventano un po’ più audaci, le scollature a cuore lasciano completamente scoperte le spalle. I cambiamenti di costume in questo nostro piccolo atelier emergono immediatamente e si riflettono in questi abiti.
Quale funzione hanno i vostri vestiti, a parte celebrare la memoria delle donne che li hanno donati e aiutare le altre che non hanno sufficienti risorse per acquistarne uno nuovo?
Oggi, per tornare allo scopo della sartoria solidale, gli abiti da sposa ci servono per sensibilizzare le persone e veicolarne l’attenzione sulla violenza di genere. A una sfilata si partecipa sempre volentieri, chi viene invitato la considera un evento ludico, ma non sa quanto lavoro ci mettiamo per riportare sempre il focus sulla denuncia della violenza di genere. La sfilata degli abiti trasmette comunque il messaggio che siamo lì per non perdere di vista un problema sociale, quello delle donne maltrattate, dei femminicidi, che pare non cedere il passo a una presa di coscienza generale, collettiva ma anche politica che è necessario fare molto di più di quanto sia stato fatto finora, prendere provvedimenti legislativi più efficaci per porre un argine e dare alle donne che vivono situazioni di maltrattamento, specie in famiglia, tutti gli strumenti per iniziare un percorso di riscatto.
La sartoria solidale può essere utile?
Purtroppo al momento la sartoria non sta funzionando. Da quando il centro antiviolenza è in questo condominio abbiamo preferito rinunciare. Ci sarebbe un afflusso di persone che potrebbe non essere gradito agli inquilini dello stabile. Inoltre questo appartamento non ha spazio sufficiente per poter rimettere in piedi un piccolo laboratorio. Insomma, per quel progetto serve spazio e libertà di movimento, due elementi che – allo stato attuale – non sono garantiti. Tuttavia quando riusciremo a prendere possesso della sede di Lunghezza, di recente assegnazione da parte del Tribunale di Roma, potremo iniziare nuovamente le attività della sartoria.
Di cosa hanno bisogno le donne che arrivano da voi?
Le ex detenute, per esempio, hanno il forte desiderio di ricostruirsi una vita, spesso si rivolgono a noi per fare richiesta di ricongiungimento familiare. Le donne rifugiate ricorrono al nostro intervento per sollecitare richieste di accoglienza. Le donne vittime di violenza, invece, hanno la necessità di essere ospitate in luoghi protetti, dove il partner non possa intercettarle.
Altre volte veniamo interpellati da donne che intendono lasciarsi alle spalle una situazione degradante e violenta con un compagno che le maltratta e che ci chiedono un primo consiglio legale su come iniziare il percorso di separazione. Io le ascolto e, quando necessario, le faccio parlare con la nostra avvocatessa.
Monica, per esempio, è una donna con una storia di violenza familiare alle spalle. Ha avuto un compagno dal quale ha voluto separarsi. È arrivata qui perché si era proposta come indossatrice per le nostre sfilate di abiti da sposa. Soltanto dopo aver preso confidenza con noi si è sentita rassicurata e ha raccontato la sua vicenda. Poi, visto che sapeva usare ago e filo si è occupata della manutenzione degli abiti da sposa, al loro restauro o alla cura ordinaria di cui necessitano dopo essere stati dati in prestito.
Quali sono i prossimi appuntamenti che state preparando?
Il 10 maggio ci sarà una nuova sfilata che abbiamo chiamato Le otto primavere di Marie Anne perché si svolge a otto anni – appunto – dalla fondazione del centro intitolato a lei. Per l’occasione si esibirà la band acustica AmbeTre che accompagnerà la sfilata con la sua musica che racconta di sentimenti ed emozioni di vita vissuta al femminile.
Poi stiamo lavorando insieme al fotoreporter Alex Mezzenga – col quale collaboriamo da tempo – a un corto sul centro Erize e sulla storia personale di Monica, un docufilm intitolato Vita nova che è stato presentato in anteprima a Roma a inizio marzo e sarà proiettato per la prima volta al Villaggio della Terra, in aprile.

 

IL LIBRO

Stefania Catallo ha pubblicato storie conosciute attraverso la sua attività al centro antiviolenza «Marie Anne Erize». Ha raccontato vicende di donne che hanno avuto la forza di riscattarsi da situazioni dolorose e violente ma anche di quelle che non hanno saputo affrancarsene. Le ha poi raccolte sotto il titolo «Evviva, Marie Anne è viva!» (ed. Universitalia) per dare enfasi al fatto che il centro antiviolenza di Tor Bella Monaca, al suo ottavo anno di attività, ha attraversato varie vicissitudini ma è ancora aperto. Il libro copre un arco temporale di settanta anni, a dimostrazione che la violenza di genere è un fenomeno che affonda le sue radici lontano nel tempo. Illustrato da undici street artist e fumettisti di prestigio, tra cui Zerocalcare, il ricavato della vendita andrà al centro Marie Anne Erize.