L’Oscar per il miglior film straniero non è stato una sorpresa. Ashgar Farhadi aveva già vinto nella stessa categoria per Una separazione (2011), Il cliente era arrivato nella cinquina con un doppio premio allo scorso festival di Cannes – sceneggiatura e migliore attore protagonista Shahab Hosseini – e gli altri titoli non erano così «forti» da insidiarne il primato, se si esclude Vi presento Toni Erdmann l’acclamatissima commedia di Maren Ade molto amata dalla critica americana – come da quella nel resto del mondo.

 
Farhadi domenica non era presente alla cerimonia, una decisione presa in risposta al Muslim Ban di Trump, che ha impedito di arrivare a Los Angeles anche a Khaled Khatib, operatore di The White Helmets, Oscar per il miglior corto.
Nella lettera  che Farhadi ha inviato all’Academy, dopo i ringraziamenti alla troupe, ai produttori e agli altri candidati si legge: «È un grande onore per me ricevere questo prezioso premio per la seconda volta … Mi dispiace non essere con voi ma la mia assenza è dovuta al rispetto per i miei concittadini e per i cittadini della altre sei nazioni che hanno subìto una mancanza di rispetto a causa di una legge disumana che ha impedito l’ingresso negli Stati Uniti agli stranieri. Dividere il mondo fra noi e gli altri, i ’nemici’, crea paure e crea una giustificazione ingannevole per l’aggressione e la guerra. E questo impedisce lo sviluppo della democrazia e dei diritti umano in paesi che a loro volta sono stati vittime di aggressioni. Il cinema può catturare le qualità umane e abbattere gli stereotipi …».
Probabilmente su questo Oscar ha influito (almeno un po’) l’atmosfera politica dell’America di  questi giorni (come l’affermazione di Moonlight e del cinema african-american sembra rispondere anche alla polemica dell’anno scorso sull’#OscarSoWhite). Tutto giusto, per carità, un evento mediatico di tale portata serve anche a questo, a sostenere la creatività e le differenze. «Politicamente» però, come politica dell’immaginario, è davvero utile procedere facendo coincidere la «politicità» delle immagini con ciò che vi si impone sopra?

 
Il film di Farhadi in questo senso è emblematico,a cominciare dalla sua ambizione, neppure troppo celata, di «racconto morale» che il regista dissemina con maestria in incastri e «verità» fuori campo.
Enad (Hosseini) e Rana (Taraneh Alidoosti) sono due attori e sono anche marito e moglie, hanno traslocato da poco e aspettano che finiscano i lavori nell’appartamento. Un giorno un uomo sorprende Rana in bagno nuda e l’assale; la donna era di spalle, lui dirà di averla scambiata con la precedente inquilina, una prostituta. Dopo una serie di false piste si profila la questione del film: come reagirà questa coppia borghese e colta all’aggressione? In che modo cercheranno di avere giustizia sul «cliente»?

 
La dissertazione poggia sul testo che i due provano per andare in scena, Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, il disfacimento del sogno americano a cui si oppone il tratteggio di una solida morale familiare e religiosa e tradizionale. Se la moglie vorrebbe solo dimenticare, il marito dimostra di non essere così aperto come il suo status – di artista e borghese cittadino – dichiara, ma di covare pulsioni tribali e mache che esigono vendetta.

 
Farhadi lo trasforma in un giustiziere al punto da rendere impossibile una qualsiasi empatia con lui, assolvendo così il «cliente» aguzzino bravo padre di famiglia – del quale peraltro non vediamo l’atto come non vede la donna perché è svenuta. Eppure non avremmo voluto vendetta ma solo che quest’uomo venisse messo pubblicamente di fronte alle sue responsabilità.

 
È Inquietante il teorema emotivo (e di immaginario) che Farhadi tratteggia, all’opposto della contemporaneità tradotta nei dolorosi duetti mascherati di allegria tra padre e figlia in Toni Erdmann (che uscirà nelle nostre sale giovedì), nei quali il nostro presente è assai più urticante e mai strumentale.
Non è il potenziale dell’immaginario provocare altre consapevolezze? E la sua politicità «anticipare» il mondo invece di assecondare quelle certezze che spesso, quasi sempre, coincidono proprio con lo stereotipo.