Ernesto Galli Della Loggia nel suo ultimo saggio dedica parte della sua riflessione storica al tema (controverso) della egemonia comunista sulla cultura nel dopoguerra repubblicano, sottolineando più volte come il pensiero intellettuale liberal-democratico abbia finito con l’acconciarsi all’«aria che tirava», a rinunciare a un suo ruolo di critica verso il Pci e le sue contraddizioni (vedi i rapporti con l’Urss).

Il discorso meriterebbe altro spazio ma qui il riferimento mi serve per introdurre l’interrogativo di questa nota: di come, cioè, sia successo che gli esponenti di quell’opinione pubblica avvertita che negli anni di Berlusconi occupavano le pagine dei giornali, e a volte anche le piazze, per invocare il rispetto del pluralismo in un sistema tv soggiogato dal Cavaliere, non abbiano, negli anni di Renzi, sentito alcun bisogno di richiamare il premier, vistosamente «esuberante» in video anche in periodi «sensibili», ad un maggior rispetto delle norme, a una maggiore sobrietà catodica.

Nemmeno nelle ultime settimane, quelle in cui si sono consumati gli strappi più evidenti e clamorosi alla par condicio, si è letta o udita da parte di molti, in passato paladini del rispetto delle regole, una parola di critica, un grido di allarme, magari un semplice invito a non esagerare.

Guardiamo i dati sui telegiornali dell’ultima settimana prima del voto ( fonte Agcom): l’ex premier occupa un terzo o più del notiziabile e attinge a punte record di tempo di parola nel Tg3 (39%), nel Tg2 (26%), nel Tg5 (35%), nei tg de La 7 e di Sky (dove giunge a percentuali stratosferiche oltre il 40% !).

Sono numeri extraordinari, che non trovano riscontro nelle tabelle storiche dell’Agcom degli ultimi 15 anni; numeri che parlano di una sovraesposizione del capo del governo andata oltre ogni limite (probabilmente una delle ragioni della sua sconfitta) ma che non ha spinto nessuno (tranne che dalle parti del Fatto quotidiano e di questo giornale) a scrivere dello scempio che si stava consumando in un paese stordito dalla rissa mediatica. Fortemente, quest’ultima, cercata da Renzi (e assecondata dai vari Grillo e Salvini) e andata in onda senza riguardo nemmeno per le feste comandate.

Rispetto a tutto questo non un appunto, non un fondo di giornale, non un corsivo, non un cenno di indignazione hanno scomposto le redazioni di quelli che una volta si chiamavano i grandi giornali.

Di fronte all’«aria che tira» nella nuova stagione dei rottamatori, di fronte a un leader apparentemente «vincente», l’opinione pubblica più avvertita, i famosi ceti medi riflessivi, la gran parte del ceto intellettuale, si sono come accomodati tutti, e messi di fronte a quelle stesse violazioni che li avevano visti in prima linea, e in prima pagina, ai tempi di Berlusconi, non hanno ritenuto di profferire verbo né di battere un colpo.

Esempio preclaro, oggi, di quel «doppiopesismo» che Galli Della Loggia contesta alla cultura democratica di 30/40 anni fa, e che adesso fa bella mostra di sé sui giornali e la stampa un dì così rumorosi sui temi del pluralismo.

La riprova? Facciamo un passo indietro, siamo nel 2006, ultimi giorni di campagna elettorale, Berlusconi inanella l’ennesima scorrettezza mediatica su Canale 5. Per Ezio Mauro è abbastanza per scrivere che la sua condotta diventa «tecnicamente» quella di un «sovversivo», che con «il suo istinto proprietario stravolge la par condicio» e con il suo comportamento «travolge ogni regola, estremizza il confronto, sottopone il paese a una pressione e a una tensione politica senza precedenti, e senza giustificazione se non il destino personale di Berlusconi».

Cosa è successo, allora, nella pubblica opinione nazionale affinché al giovane politico di Rignano fosse concesso di rottamare dai banchi del governo, insieme alla vecchia politica, anche le regole del pluralismo, nonché quelle del bon ton istituzionale e della giusta misura?

Perché un importante, e impegnato, pezzo di intellettualità di sinistra, oggi si è girata dall’altra parte, decidendo magari di non vedere e non parlare? Acconciandosi fino all’altro ieri, come direbbe Della Loggia, «all’aria che tira»?