Una spinta per rubargli la bici. Un pugno, la testa che batte sul marciapiede. Dopo un giorno di coma, l’unico da incosciente dei suoi 74 anni di vita, è morto in un ospedale di Rosario, in Argentina, Tomas Felipe Carlovich, per tutti e per sempre “El Trinche”. Piange un Paese innamorato del futebol. Perché quello che se n’è andato due giorni fa è stato, per dirla con le parole del commissario tecnico della nazionale campione del mondo del ‘78, Cesar Menotti: «Il più grande giocatore che non avete mai visto». Un Salinger della pelota.

UN’IPERBOLE? FORSE. Ma quando più di un quarto di secolo fa Diego Armando Maradona, arrivando a Rosario per giocare nei Newell’s Old Boys si sentì dire che era un onore avere in città il più grande di tutti, Diego rispose: «Vi sbagliate, lo avete avuto già, è stato El Trinche».

Soprannome misterioso, assegnato – regola fissa per ognuno in Argentina – dai ragazzini di strada che giocavano a pallone sulle strade di Rosario. Città unica. Come i suoi illustri nativi, Che Guevara, Fontana, Messi. Unica, come il suo dialetto. O il suo gioco del calcio. Il famoso futebol rosarino. Altra roba: ritmi lenti, tunnel, pallonetti sopra la testa dell’avversario, il famoso «sombrero».

EL TRINCHE NON AVEVA RIVALI. Ma la sua storia – letteralmente rubata ad un romanzo di Osvaldo Soriano – va oltre. Una squadra del cuore, il Cordoba Central, serie B argentina degli anni ‘70 dove era sbarcato perché il padre croato dopo la crisi del ‘29 cercò fortuna in Argentina. E occasioni perdute, sempre con ferrea volontà, per giocare a Baires, in Europa, in nazionale. Meglio il barrio Belgrano, quello della sua amatissima Rosario.

Ma come ha fatto un «volante» – il regista difensivo – del campionato di B argentino a diventare famoso in tutto il mondo? Perché l’amore per il suo calcio è stato – o meglio è, El Trinche è immortale – un postulato: non va dimostrato. Allo stadio Gabino Rosa – dove c’è un murale celebrativo – si pagava il biglietto per la partita con lo sconto se El Trinche non giocava. Jorge Valdano, l’intellettuale della seleccion albiceleste campione del mondo nell’86 ha detto: «El Trinche è stato l’espressione di un calcio romantico e divertente che ormai non esiste più».

COSÌ NEL TEMPO LA LEGGENDA si è rincorsa sui viali delle sconfinate memorie. Ubriacone? El Trinche era praticamente astemio. Grande pescatore di Dorados? A male pena qualche trota sulle sponde del Paranà. Ma in mezzo storie vere. Come quella del 17 aprile 1974. A Rosario si gioca una amichevole tra una selezione di giocatori della città e la nazionale argentina che deve andare ai mondiali in Germania.

Cinque del Rosario Central, la squadra di Che Guevara, e cinque del Newells Old Boys, quella dove sgambettò poco più che infante Leo Messi. Più uno, El Trinche. Primo tempo 3 a 0 per i rosarini. Col ct argentino Cap che dice agli avversari: togliete dal campo quel «5» (il numero di maglia del nostro), ci sta umiliando. Ma niente. Restò li. In B, a Rosario.

NEMMENO LE LETTERE accorate di Pelè sbarcato ai Cosmos di New York a caccia di talenti sul viale del tramonto per il sogno del soccer Made in Usa, lo convinsero. Una vita tranquilla. Amici, bar e la bici. Nell’ultima intervista, dieci giorni fa disse: «Sono felice così, con la mia gente che mi vede passare in bici da un barrio all’altro e mi saluta e mi ringrazia perché ricorda».

Tutti, tranne quel balordo che di notte ha visto solo un viejo e una bici da rubare. Fiori e lumini sotto il murale dello stadio Gabino Rosa. E una scritta tipicamente rosarina: Hasta Siempre Trinche. Immortale lo eri già.