«Edmond e Jules de Goncourt hanno inventato tre cose, o per lo meno lo dicono: il naturalismo, l’aver rimesso di moda il diciottesimo secolo e il giapponesismo»: con queste parole Gustave Lanson, un antico storico della letteratura dai gusti sufficientemente reazionari e che ebbe al tempo suo più di qualche peso in terra di Francia, dava inizio a un serrato fuoco di fila fatto di ironie, di sarcasmi, di valutazioni liquidatorie e persino di malcelati spasmi di risentimento. Ma in definitiva il vecchio professore – che fu, tra le altre cose, vigoroso e sanguigno avversario di Hippolyte Taine e del suo metodo – non poteva riuscire nell’impresa che si era prefisso, vale a dire negare la verità indiscutibile di quei tre meriti che i due fratelli di certo si attribuivano.
Parlano le date, i libri, le risultanze oggettive, le predilezioni e, insomma, la sommatoria di un’opera multiforme che poi è lo specchio fedele degli interessi molteplici coltivati dalla coppia di proprietari della casa di Auteuil – la casa-museo, la casa della vita, la maison d’un artiste, secondo il titolo del volume (costruzione di una costruzione) composto per glorificarne gli oggetti d’arte o anche solo gli oggetti in essa contenuti, una sorta di autobiografia delle cose e di chi e perché le ha scelte. Passioni e ambiti che i Goncourt non sapevano attraversare se non mutandoli, nel loro desiderio di solitudine, di isolamento e di ascesi, in vere e proprie ossessioni, come se l’acribia, la laboriosità da infaticabili amanuensi, la vocazione enciclopedica e (ad esempio) la minuziosità nel compilare repertori traessero innanzitutto origine, oltre che da una scelta morale e addirittura ideologica, da una squassante energia del sistema nervoso e linfatico, energia che pare in sonno, obnubilata da un sentimento di desolazione e spalmata di umor malinconico, in una foto scattata da Nadar nel 1856, entrambi seduti, uno accanto all’altro, lo sguardo basso a scrutare il nulla, una cosa sola, un solo e annoiato impulso a non essere lì in quel momento, una comune voglia di assenza, di volersene stare lontani, inseguendo e presagendo quella condizione di solitudine tipica degli scrittori sperimentali e che d’altra parte, nei Goncourt, pare evidente (e non sembri un paradosso) persino nelle pagine del Journal, ossia di quel lungo tentativo di conversazione che procedendo quotidianamente e senza soste si va assottigliando fin quasi a estinguersi, e non solo e non certo a causa della morte di Jules, avvenuta nel 1870, a chiudere un sodalizio letterario durato diciotto anni.
L’utensile dell’occhio
«Più sensitivi che intelligenti», allora, come afferma Lanson e come molti critici, con toni di beffarda sufficienza, hanno insinuato? O costoro, piuttosto, non riuscirono a credere o a capire che potesse essere l’occhio uno strumento affilatissimo dello stile? Era questo l’utensile (così lo ha definito Mario Lavagetto) dei Goncourt e, per suo mezzo, seppero dare la più politica delle risposte ai fumi e ai profumi del Secondo Impero. Lo fecero nel Journal e nei romanzi, almeno a partire dal 1864 con Renée Mauperin (proprio l’anno precedente, va rammentato, era stata pubblicata la Philosophie expérimentale di Bernard). E a seguire, nel 1865 e con maggiore incisività, in Germinie Lacerteux, il loro romanzo più celebre e fortunato che adesso è tornato in libreria nella traduzione di Giacinta De Dominis Jorio (Castelevecchi, pp. 240, euro 18,50) approntata nel 1970 per la Fratelli Fabbri e poi ristampata nel ’94. Una buona versione, non c’è che dire, anche se sarebbe stata preferibile in assoluto quella d’autore di Oreste del Buono, 1951, uscita nella vecchia «Biblioteca Universale Rizzoli» con l’arbitrario titolo Le due vite di Germinia Lacerteux, quasi a volerne offrire in partenza (di quella storia atroce) una indicazione se non una chiave di lettura – un segnale che alludesse senza mezzi termini o sfumature a uno squilibrio psichico, a uno stato di schizofrenia, a un impulso devastante e quanto mai tragico, a una malattia dei nervi (e del libro, che piacque molto a Hugo e, quel che più conta, a Flaubert, al quale non dovette sfuggire il suggello posto in morte della protagonista, ossia «nel mondo non esisteva più Germinie»; Sainte-Beuve, da parte sua, ne parlò come del frutto di un’«arte nervosa» e non solo di una «ricerca nuova». Ma il grande critico, detto tra parentesi, non fu dai due fratelli ricambiato nel loro diario con moneta celebrativa, per quella sua «aria», notavano acremente, «da maître-d’hotel» o da «portinaio gottoso» o, ancora, da «piccolo bottegaio in trionfo»).
Il romanzo ha un antefatto autobiografico. Il 16 agosto del 1862, infatti, muore Rose, la loro domestica, ed è soltanto a quel punto, nei giorni successivi al funerale, che Edmond e Jules verranno a sapere della «doppia vita» di quella donna di umili origini contadine che essi avevano accolto in casa e da cui erano stati accuditi con dedizione e devozione. Del lungo e degradante viaggio di quella creatura i due non si accorsero mai, e nel romanzo – Rose diventata Germinie –, per la buona e compassionevole padrona la rivelazione avviene alla fine, dopo la sepoltura in una fossa senza nome, nel cimitero di Montmartre.
Nessun dettaglio risparmiato
Le due esistenze, appunto, la diurna e la notturna: «Il miracolo di quella vita sregolata e tormentata, di quella vita vergognosa e spezzata, fu che non diede mai luogo a scandali clamorosi. Germinie non lasciò apparire nulla, non permise che alcun accenno le salisse alle labbra, non lasciò scorgere alcunché sul suo viso e nel suo aspetto esteriore, e il fondo maledetto della sua esistenza rimase sempre ignorato dalla sua padrona». Non è così per il lettore, ovviamente, a cui nessun dettaglio viene risparmiato nel prosieguo dei settanta brevi (e alle volte brevissimi) capitoli o, piuttosto, quadri con al centro la storia di una precipitosa, inarrestabile degradazione per tappe discendenti, dall’innamoramento per il giovane e cinico bellimbusto Jupillon (si notino il suo «aspetto incerto» e i «lineamenti senza sesso») all’inevitabile disillusione, dall’alcolismo alla ricerca (mediante richiesta continua di prestiti ai negozianti del quartiere) di denaro per consentire ai bisogni e ai capricci dell’uomo, dall’ossessione erotica che la induce a offrirsi a chiunque alla malattia fatale.
In Germinie è innanzitutto il corpo a parlare. A parlare è la cosiddetta malinconia delle vergini, è l’«appetito dei suoi organi», è «il dominio di una malattia più forte del suo pudore e della sua ragione stessa». Il corpo parla e chiede per mezzo, ad esempio, di allucinazioni oscene: «Arrivava al punto in cui, in alcuni momenti, tutto ciò che vedeva e che la circondava, i candelieri, i piedi dei mobili, i braccioli delle sedie, tutto assumeva forme e apparenze impudiche». L’amplesso diventa alimento, «cibo», qualcosa di irrelato dal desiderio, perfino richiesta di brutale violenza. Di notte, come un cane randagio, Germinie esce di casa e si avvia verso la periferia, in luoghi solitari e pericolosi, dove la città lascia il posto ai campi e ai terreni sterrati pronti ad accogliere nuove costruzioni. Nel romanzo spicca un uso potente e ripetuto di ossimori – appunto, la «debolezza ardente» della protagonista.
Mancanza di profondità?
Nel suo prezioso libro sul romanzo francese dell’Ottocento, Stefano Agosti ha colto, e proprio a proposito di Germinie Lacerteux, una mancanza di profondità. Ma forse la profondità va qui cercata nella pura pratica dello sguardo e nell’esercizio di una cruda e minuziosa osservazione. Va detto inoltre che, tra le letture e le interpretazioni critiche pure prestigiosissime (si pensi a quella di Auerbach in Mimesis), pare quella di Jules Renard la più efficace, in specie quando scrive come la caratteristica dello stile dei Goncourt risieda nel «disprezzo altero per l’armonia, per quelle che Flaubert chiamava le clausole. Le loro pagine sono piene di genitivi accoppiati, di pesanti congiuntivi, di costrutti pastosi che sembrano uscire da una bocca piena di saliva. Hanno delle parole che sembrano dei rovi, una sintassi che raschia la gola e produce in fondo al palato l’effetto di qualcosa che non si riesce a vomitare». Si tratta di un’ipotesi che, se accertata e condivisa, immette questo romanzo in uno scenario futuro, tutto novecentesco.