All’indomani di un congresso impostato male e finito di conseguenza peggio, con la nomina di un «comitato di garanti» formato dal presidente uscente Paolo Beni e dai 17 responsabili delle strutture regionali dell’associazione, il problema cui l’Arci dovrà dare soluzione nei mesi a venire non è certo facile: come superare, in positivo, la plateale divisione che si è manifestata, tanto da portare alla mancata elezione del nuovo consiglio nazionale e, a cascata, degli organismi direttivi? La spaccatura definitiva è stata evitata solo all’ultimo, con il comune riconoscimento di Filippo Miraglia e Francesca Chiavacci che la corda stava davvero per spezzarsi. Palla in tribuna e partita sospesa. Meglio così. Ma solo perché si era arrivati al punto di non ritorno.

Il “congelamento” del congresso, riconvocato alla fine di giugno, in teoria dovrebbe dare il tempo ai garanti per tirare le fila di una discussione che, secondo molti, doveva essere fatta prima dell’appuntamento emiliano. Questi tempi supplementari, nei fatti, aprono però la strada a nuovi interrogativi. Che non riguardano soltanto le modalità, invariabilmente schematiche – al di là dei calcoli delle percentuali nell’assegnazione dei delegati – e scarsamente inclusive, con cui la più grande realtà laica dell’associazionismo italiano sceglie i suoi principali dirigenti. Ma finiscono per toccare quello che sarà ricordato, all’esterno, del sedicesimo congresso dell’Arci: lo scontro per la presidenza tra Chiavacci e Miraglia. Una corsa per la leadership, in una organizzazione che a più riprese ha criticato il leaderismo e gli uomini/le donne soli al comando.

«Non si era mai vista una cosa del genere, peggio che nei più tormentati congressi dei partiti», raccontano sconsolati i delegati che, quasi in 600, hanno affollato per quattro giorni il palazzo Re Enzo. Assaporando la tradizionale ospitalità di una Bologna già primaverile, in uno scenario di rara bellezza come quello racchiuso fra piazza Maggiore e piazza del Nettuno. Riuscendo anche, nonostante l’asprezza di una competizione «che davvero non è nelle nostre corde», come ha ricordato dal palco più di un delegato, ad approvare unanimemente uno statuto e un pacchetto di ordini del giorno che qualificano una volta di più l’Arci come casa comune della sinistra italiana.

Non si potrebbe giudicare altrimenti la bocciatura senza appello della legge elettorale approvata a Montecitorio, definita come «un obbrobrio» per le liste bloccate, l’alta soglia di sbarramento, un premio di maggioranza troppo alto e la mancata introduzione delle quote rosa. Una legge «che va in direzione contraria al parere della Consulta, e che esclude dalla partecipazione democratica un numero sempre maggiore di persone, proprio nel momento in cui la classe politica deve fare i conti con una gigantesca crisi della rappresentanza».

In parallelo l’assemblea ha preso posizione «contro le grandi opere inutili come la Tav». Con la richiesta di sospendere i lavori in Val di Susa, smilitarizzandola, e con una solidarietà non di maniera agli attivisti, denunciati e incarcerati, che si battono per la difesa dei beni comuni. Beni come l’acqua, di cui l’Arci continua a chiedere l’applicazione del referendum. Mentre sull’ambiente arriva l’abbraccio ai cittadini di Niscemi che si battono contro il Muos, e si continua a battere il tasto di una riduzione delle spese militari, della chiusura dei Cie, della cancellazione della Bossi-Fini e di un’azione antimafia non di maniera ma di quotidiano, benefico impatto nella società.

Ci sono altre felici prese di posizione generali come il sostegno al governo legittimo del Venezuela; la richiesta di un’Europa sociale, del lavoro e dei popoli contro l’attuale, asfissiante architettura dell’Ue; il cessate il fuoco in Siria e il rispetto dei diritti di tutti in Ucraina. Sono tasselli di un profilo associativo e politico invidiabile. Che non ha alcunché da spartire con la richiesta di voto segreto, fatta dai cosiddetti «movimentisti», per scegliere i meccanismi elettorali per la composizione del consiglio nazionale (75 proporzionale e 25% a tutela delle regioni «di frontiera», oppure rispettivamente 65% e 35%). Né ha qualcosa da spartire con la minaccia di abbandonare la sala, fatta dagli altrettanto cosiddetti «territorialisti». Sconfitti entrambi, anche se il congresso non è ancora formalmente finito.