I tanti cassetti della scrivania d’epoca, presenza imponente e austera (appartenuta al suocero), erano il luogo in cui Giuseppe Loy (Cagliari 1928 – Roma 1981) conservava le sue stampe fotografiche. Circondata dai libri sui piani delle librerie è ancora in un angolo del salotto, con le tracce di bruciature di sigarette: le Gitanes senza filtro di cui parla Rosetta Loy nella nota che accompagna la raccolta postuma di poesie del marito Giuseppe Loy, I versi e la tagliola (1993).
La scrittrice abita ancora in questa casa-museo costruita nel ’61 nel verde di Saxa Rubra. È il figlio Angelo (Roma 1966) – il più piccolo (lo precedono le sorelle Anna, Benedetta e Margherita) a occuparsi dal 2000 dell’archivio del padre, fotografo per diletto a partire dagli anni ’50.

OGGI QUESTO ARCHIVIO che conta migliaia tra provini a contatto, positivi e negativi è al primo piano, negli armadi e negli scaffali della mansarda, in parte inventariato e digitalizzato. «Per anni, dopo la morte di mio padre, è rimasto negli scatoloni in soffitta – racconta Angelo mentre indica la sequenza in cui sono riconoscibili Alberto Burri, Afro Basaldella e Lucio Fontana al piano terra delle Gallerie nazionali di arte antica – Palazzo Barberini di Roma, dove è allestita la mostra Giuseppe Loy. Una certa Italia. Fotografie 1959-1981, curata da Chiara Agradi e Angelo Loy (fino al 27 febbraio, catalogo pubblicato da Drago).
Momenti privati di amicizia e complicità intellettuale sono colti nella freschezza di un microcosmo temporale ritagliato nei ritmi della quotidianità. In queste fotografie in bianco e nero che inquadrano momenti di condivisione come il tiro al piattello, ad esempio, con quei grandi maestri dell’arte del Novecento, oppure i bagnanti sulla spiaggia del Poetto a Cagliari o su quella di Santa Marinella, gli scorci romani, i paesaggi innevati si coglie sempre la tensione da fotografo umanista con un’attenzione alle tematiche sociali.

GIUSEPPE LOY del resto – iscritto al Pci – era particolarmente attivo nelle sezioni di Ponte Milvio e via Flaminia, dove era solito organizzare iniziative culturali. «Era arrivato a creare il Cic-Centro d’informazione culturale, facendosi dare una stanza vicino a Botteghe Oscure in cui raccoglieva tutti i libri destinati ai comuni italiani privi di centri culturali e biblioteche, soprattutto nel sud». Anche quando, ogni tanto, era chiamato dall’amato fratello Nanni a collaborare con lui come fotografo di scena, come nel film Le quattro giornate di Napoli (1962), più che fotografare il set dava rilevanza al contesto con le immagini di Gaeta che recava ancora le ferite della guerra. «Ma nelle sue foto c’è sempre uno sguardo positivo verso un’umanità che è trattata nel suo lato migliore», precisa ancora il figlio. Il fotografo amava anche scrivere poesie, ma il legame con il linguaggio fotografico emerge soprattutto nei suoi epigrammi «per l’immediatezza, l’ironia, il divertimento di composizione. La poesia, invece, è molto intima e sofferta, soprattutto nel rapporto sentimentale con mia madre che cambiò negli anni. Prima era segnato da un grande afflato amoroso, poi dal tormento».

ALCUNE POESIE sono dedicate, poi, agli amici come quella per Burri a cui scrive: «Vivere più di quanto tu non mostri/ nelle brevi suture dei tuoi sacchi/ nei neri torti in un preciso orrore/ nei grandi bianchi spaccati dall’arsura/ o fermarsi stremati/ e non morire./ Questa è la tua lezione/ amico caro di un’età che è morta/ con gli enigmi banali e i suoi pudori?».