È passata qualche settimana da un brutto 25 aprile e da un brutto 1 maggio; e non solo per ragioni meteorologiche. È l’aria che si respira nel Paese, che non è bella.

La Costituzione è sotto assedio e non prende corpo una forza di popolo in grado di respingere l’attacco. Sono preziose le analisi di intellettuali seri e rigorosi che spiegano lucidamente che essa non è una «carta», ma un architrave; e che le modifiche introdotte dalla sola maggioranza, unitamente alla legge elettorale, non modificano la sua seconda parte, ma destrutturano il suo principio basilare, quello della rappresentanza democratica.

Renzi metterà in campo forza, denari e potere, per ottenere quello stravolgimento; cosa metteremo in campo noi, per contrastarlo? Perché è una battaglia che non si vince, lasciando soli intellettuali straordinari e costituzionalisti impagabili, senza schierare un popolo che va riaggregato, ricostruito e rimotivato; senza uno strumento che, letteralmente, divulghi il senso dello scontro in atto. Non c’è un prima e un dopo: prima il referendum, prima la raccolta di firme per gli altri referendum, dopo la ricostruzione di una sinistra di massa. Non funziona così.

Non è questione di «mele marce»

Quello che sta avvenendo nel Pd è impressionante e indicativo; e ha molto a che fare con lo stravolgimento della Costituzione. Perché quel partito non ha un problema di metodo o di «mele marce»; sta solo mostrando la sua identità di fatto che (al di là degli aspetti penali) è politicamente chiarissima: la trasformazione della politica e delle istituzioni – a livello centrale e periferico – in uno strumento di privatizzazione degli interessi e delle relazioni sociali; la mercificazione del consenso a-partecipativo, per garantire quegli interessi e quei poteri. Un regresso pre-costituzionale, mascherato da svecchiamento. Dunque, a questi «riformisti» non servono (né in Parlamento, né nei governi locali) assemblee di indirizzo e di controllo popolare, ma assemblee di soci che ratifichino decisioni di consigli di amministrazione (italiani o europei); dunque, serve loro un’altra Costituzione senza rappresentanza. E, poiché l’ Articolo 1 non era un accessorio, serve loro il mondo del lavoro che stanno producendo: frammentato e diviso, privo di una soggettività politica e di una rappresentanza sindacale forte; privatizzato anch’esso e ricattabile. Perché chi tira i fili (compreso questo Presidente Emerito della Repubblica, con l’elmetto) sprovveduto non è e sa che con un mondo del lavoro in queste condizioni, è estremamente difficile mettere in campo un popolo e, dunque, sarà più facile governare senza popolo.

Il nesso, dunque, tra referendum sociali, quelli contro il jobs act, la riforma Fornero e la cattiva scuola e quello costituzionale dell’autunno, dovrebbe essere chiaro; ma serve una lingua semplice, una vulgata adatta ai processi di semplificazione imperanti. Anzi, tante lingue, che parlino chiaro nei mercati, nei bar, a vecchi e giovani. E servono subito, perché questa non è una battaglia come le altre; dopo, sarebbe tutto (se possibile) ancora più difficile.

Oltre ai Referendum e insieme ad essi, la Cgil ha messo in campo un’altra battaglia importante: la Carta dei Diritti universali del lavoro. È una scelta che ha il senso della rottura di un accerchiamento e dell’uscita da una condizione puramente difensiva. Già non è poco, ma in realtà può essere molto di più. Per il merito e per il percorso partecipativo: consultazione straordinaria degli iscritti e raccolta di firme per la Legge di iniziativa popolare; può essere una occasione per tornare a motivare centinaia di migliaia di lavoratori, di tutti i settori, verso ciò che, con tutta evidenza, in questi decenni è andato affievolendosi e smarrendosi, cioè la fiducia nella forza collettiva del mondo del lavoro; il suo essere protagonista e motore della Repubblica e di ogni avanzata, più generale, dei diritti di cittadinanza. Restituire loro la coscienza piena di questa funzione collettiva verso il Paese e verso le generazioni future; quella responsabilità che tanti cittadini e lavoratori non riconoscono più alla politica e alle istituzioni.

Un nuovo tessuto sociale

Questa campagna, però, nel momento in cui si fa «iniziativa popolare» ed esce dal recinto in cui le offensive liberiste – e molti errori soggettivi – hanno chiuso il sindacato, potrebbe incontrare realtà, sensibilità, persone oggi lontane, scettiche, isolate; il mondo del lavoro e dei lavori, proprio sul terreno dei diritti materiali ed immateriali e su quello concretissimo della dignità delle persone, potrebbe costruire nuovo tessuto sociale e vitalità democratica, rilanciare una cultura contemporanea del lavoro in tante pieghe della società italiana, a cominciare dai giovani e dai giovanissimi (e dalle giovani e giovanissime), alle molteplici forme del lavoro intellettuale e dei saperi. Per cominciare a ricostruire, con loro, una coscienza collettiva e solidale. Quei referendum aggiungono alla Carta valore e sostanza; aiutano a ricostruire l’idea che il conflitto è l’essenza della democrazia.

L’universalità dei diritti – con cui la Carta rilancia il valore della Costituzione e di ogni democrazia – è ciò che quotidianamente stiamo perdendo, nella frammentazione e liquefazione sociale che nascondono il nocciolo duro dei privilegi e delle ingiustizie. Per questo, la campagna può essere un passo deciso verso il radicamento del sindacato in mezzo a quei lavori precari e frammentati che esso è stato accusato di aver dimenticato e trascurato; in parte a ragione, indubbiamente, in parte, invece, rimuovendo la realtà materiale, la difficoltà di essere nei «non luoghi» di molti lavori contemporanei, di contrastare la forza ricattatoria della precarietà. Il tentativo di dare concretezza giuridica a questa universalità è, probabilmente, il primo vero impegno di massa per la ricostruzione di questo rapporto, per riunificare, nei conflitti del presente, quel magma che l’ideologia dominante vorrebbe inevitabilmente inestricabile, atomizzato e solo.

Un complesso di nodi di libertà

E questa sfida di universalità, proprio per la concretezza delle questioni poste dalla Carta, non si riferisce solo alla linea di demarcazione (che tra l’altro il jobs act e la cancellazione dell’articolo 18 rende assai più labile) tra lavoro precario e lavoro «stabile»; ma anche all’emersione del lavoro nero, ai termini tradizionali e nuovi in cui il lavoro delle donne sfida l’organizzazione sociale nel suo complesso e quella dei processi produttivi, oltre, naturalmente alla piena (e lontana) applicazione dell’articolo 3 della Costituzione, cioè al reale superamento della discriminazione di sesso; alla dignità e ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati.

Ma ancora: il controllo a distanza, la sicurezza, la formazione, il sostegno al reddito e una grande quantità di altri diritti, problemi, contraddizioni. Non un elenco, ma un complesso di nodi di libertà e giustizia in cui il lavoro e la cittadinanza si intrecciano inestricabilmente nella vita di milioni di donne e uomini, giovani, adulti, anziani. La sostanza del vivere quotidiano di queste e delle future generazioni.

Certo, non è scontato che sia così; che cioè questa campagna riesca a mettere in campo, a livello di massa, questo spessore e queste prospettive che la Carta contiene. Consultazione e raccolta di firme potrebbero anche essere gestite, al di là della volontà soggettiva, in modo riduttivo e burocratico, non incontrando i mondi che si evocano. Ma non può essere vissuto come un problema del solo sindacato.

Queste battaglie, nello scenario europeo poco incoraggiante che conosciamo, si configurano come la ricostruzione di un blocco sociale e politico di una sinistra contemporanea nei contenuti, nelle persone e nei linguaggi; mai, nella storia d’Italia questo obiettivo è stato altra cosa dalla conquista, dalla ricostruzione o dalla difesa della democrazia. Oggi, come agli inizi del secolo scorso, esso coincide con un passaggio d’epoca che non lascia davvero nulla di immodificato.