La propensione all’espatrio degli architetti italiani ha registrato una progressiva accelerazione a partire dagli anni ’80 e ’90, quando l’istituzione del programma Erasmus ha aperto le porte dell’Europa a numerosissimi studenti d’architettura; molti di loro hanno nel corso degli anni iniziato a lavorare fuori per poi trasferirsi definitivamente all’estero. Erasmus effect, la mostra in corso al Maxxi di Roma (fino al prossimo 6 aprile), racconta questo processo di diffusione endemica dell’architettura italiana che, dice il curatore Pippo Ciorra, si sparge «come l’aviaria» in Europa e nel mondo.

La dimensione migratoria del progetto, congenita alla natura stessa dell’architettura e degli architetti, viene indagata all’interno di un contesto ben preciso. Come suggerisce il titolo, l’interesse della rassegna è rivolto soprattutto alle generazioni immediatamente precedenti e immediatamente successive all’istituzione del programma Erasmus (1987), e si muove (prevalentemente) nel bacino territoriale identificato dai paesi della Comunità Europea.

Da strumento di conoscenza e approfondimento o da occasione per aprire a nuovi orizzonti i propri incarichi professionali, oggi più di sempre il viaggio (di sola andata) sembra l’unica possibilità, per i giovani architetti, di realizzare il proprio lavoro. La questione è di estrema attualità e si inserisce nel fenomeno, più generale, della «fuga dei cervelli». A caratterizzare l’esodo dei progettisti, e ad accrescerne l’interesse, è la possibilità di lasciare i segni tangibili di queste migrazioni, di costruire nelle «nuove patrie» quegli edifici che in Italia non sarebbero potuti diventare realtà.

Questo aspetto nella mostra emerge in modo molto evidente, in particolare nella rassegna dedicata a quei progetti, con firma italiana e realizzazione all’estero, che sono diventati delle pietre miliari della storia dell’architettura: il Museo di Arte di San Paolo di Lina Bo Bardi (1957-68), la Scuola Nazionale d’Arte dell’Havana, a Cuba, di Vittorio Garatti (1961-64), il Beaubourg parigino di Renzo Piano (1971-77), solo per citarne alcuni.

Erasmus effect espone i disegni e i modelli originali delle opere, per poi affidare il racconto delle esperienze più recenti ad un percorso interattivo, in cui frammenti di container industriale si trasformano in punti di ascolto delle testimonianze dei giovani architetti all’estero. «Dove sei nato, dove hai studiato e dove lavori adesso?»: iniziano così le brevi interviste audio e video agli architetti espatriati, giovani, nella maggior parte dei casi under 40, professionisti affermati, eleganti e sorridenti; si guardano i video, si ascoltano le interviste, e non si può fare a meno di immaginare come sarebbero apparsi, cosa avrebbero raccontato se fossero restati in Italia.

Accompagna tutto il percorso espositivo, con la progressione costante del basso continuo, il disegno di una time-line che ricostruisce il contesto storico culturale in cui si è orientata la ricerca. Stampate su tutta la lunghezza della parete del museo, le linee della scienza, della politica e dell’architettura corrono parallele, disegnando intrecci e addensamenti, fino a prendere forma e a descrivere, con pochi segni, gli sviluppi del linguaggio architettonico dalla fine dell’800 ad oggi.

L’allestimento, già a partire dalla scelta degli autori, non tradisce i contenuti della mostra: chi meglio di uno studio di progettazione italiano emigrato all’estero avrebbe potuto interpretare l’idea curatoriale? Il progetto è stato affidato ai LOT EK: due architetti napoletani trasferitisi negli Usa dopo la laurea, oggi titolari di uno studio «di successo» a New York e docenti alla Columbia University. Un’infilata di segmenti di container, tagliati a 38 gradi con l’inclinazione degli spazi di Zaha Hadid, occupa l’intera galleria e ricorda l’idea del movimento, della costruzione pensata per essere spostata, e allo stesso tempo richiama l’azione del taglio, dello sradicamento vissuto dai progettisti emigrati all’estero. Stessa, ossessiva, inclinazione e tono arancione fluorescente (colore di tutta la mostra) per il progetto di una libreria, posta all’inizio del percorso, che raccoglie le pubblicazioni, italiane e straniere, delle architetture italiane nel mondo, e che ricorda quanto di queste migrazioni sia depositato nella carta stampata, nei testi di critica e di cronaca.

Erasmus effect descrive il fenomeno del nomadismo in architettura usando vari registri, esponendo progetti, vicende e racconti. Forse la parte più interessante della mostra è quella delle storie personali, per cui si ascoltano con attenzione le interviste ai giovani architetti all’estero, e si guarda con più curiosità alle biografie e alle mappe dei viaggi, piuttosto che ai plastici e ai disegni dei maestri espatriati. La prima impressione è che questi materiali potessero anche non essere esposti, e che Erasmus sia sostanzialmente una mostra sugli architetti, più che una mostra sull’architettura.

A freddo tornano poi negli occhi le immagini dei plastici, dei disegni, dei video, e quei progetti risultano allora fondamentali, (necessari quanto meno per una buona iniezione di fiducia e autostima), anche per ricordarci che l’esodo in questione non è solo l’emigrazione coatta dei momenti di crisi, ma anche occasione di affermare e esportare le proprie capacità in altri contesti.

A questo proposito, Ciorra ha tenuto a precisare che «Erasmus effect vuole riportare sulla scena gli architetti italiani, dimostrando che sanno lavorare e realizzare opere di qualità allo stesso modo dei colleghi stranieri, e che l’architettura italiana non è affetta da alcuna malattia genetica dopo la morte di Aldo Rossi».

Difficile dire se, dopo aver visitato la mostra, prevalga il senso di frustrazione oppure l’iniezione di orgoglio e fiducia; ciò che resta, per lo meno per chi, come scrive, appartiene alla categoria dei «giovani» architetti e di laureati under 40, è senza dubbio un senso di identificazione e di appartenenza ad una comunità specifica, profondamente scossa (nel bene o nel male?) dalle congiunture culturali ed economiche del momento; alla mostra va riconosciuta la capacità di aver identificato e indagato questa generazione, riportandola all’attenzione del pubblico e della critica, e sottraendola alle questioni meramente «occupazionali».