Quest’anno cade il centesimo anniversario della pubblicazione del Manifesto dell’Architettura Futurista di Antonio Sant’Elia. Conteneva un veemente attacco di Filippo Tommaso Marinetti, nei confronti di quegli architetti ridotti a «rovistare in un groviglio di vecchie formule», ed era illustrato dai disegni visionari della «Città Nuova» di Sant’Elia e del suo collaboratore Mario Chiattone. Era un’impulsiva chiamata alle armi, nella convinzione che un cambiamento radicale fosse possibile e necessario.
Perseguita con libertà e audacia, l’architettura racchiudeva la promessa di trasformare il mondo delle cose in una proiezione diretta del mondo dello spirito. La loro era un’attitudine al rischio, fondata sulla fiducia nel lanciarsi «alla ricerca di nuove frontiere». Credevano che una tale sfida all’immobilismo intellettuale avrebbe potuto rendere l’architettura libera di sperimentare nuove idee e un futuro diverso: «Ogni generazione deve costruire la propria città», sosteneva Sant’Elia.
Cento anni dopo la chiamata alle armi di Sant’Elia, qual è il discorso radicalizzante della nostra epoca? Risulta evidente l’attuale esaurimento dell’architettura e dell’urbanistica, il drastico ridursi delle loro possibilità future. Ciò che è diventato sempre più chiaro, negli ultimi anni, è che la modernità, la ragione e la nozione stessa di progresso, sono state sottoposte a un intenso attacco da parte di coloro che respingono l’aspirazione a trasformare il mondo.
La storia dell’ultimo secolo di modernità è la storia del declino e collasso dell’architettura che si era data una missione di trasformazione. Oggi gli architetti raramente sfidano le direttive. Sono tutti troppo inclini a seguire acriticamente i programmi e i vincoli delle politiche pubbliche, le loro linee guida ostili alla partecipazione dei cittadini alle scelte. È un’architettura che si adatta ai vincoli ambientali senza riconoscere che, così facendo, le esigenze dell’umanità vengono poste in subordine rispetto alla natura – o senza ritenere che, per stabilire ciò, sarebbe necessario almeno un dibattito.
Senza un dibattito simile né una genuina battaglia delle idee, l’architettura può solo continuare a soffrire di un atteggiamento corrosivo e autodistruttivo. Sei anni fa, con una dichiarazione memorabile, l’ambientalista britannico George Monbiot ha suggerito che dovremmo rendere le persone così depresse riguardo alle condizioni del pianeta, da farle rimanere tutto il giorno a letto, riducendo così l’utilizzo da parte loro di combustibili fossili. Pochi possono arrivare a tanto, ma nella cultura promossa dai teorici dello sviluppo sostenibile (cioè che un eccesso di attività umana sia dannoso) parole come creatività e innovazione rischiano, in ambito architettonico, di essere condizionate dalla preoccupazione per la sopravvivenza.
Dove Sant’Elia spronava a «lanciare le menti aperte alla ricerca di nuove frontiere», oggi l’atteggiamento difensivo degli architetti indica come una virtù il rispetto dei vincoli e l’esercizio della moderazione. Lo scrittore canadese Chris Turner invita a interpretare le limitazioni come delle opportunità, per trovare soluzioni che dai vincoli possono trarre maggiore stimolo. La scrittrice britannica Sofie Pelsmakers si chiede: «l’attenzione al calcolo delle emissioni di carbonio può soffocare la creatività architettonica?», ma conclude anch’essa che i vincoli ambientali possono rappresentare un utile sproneper la creatività, dando vita a un nuovo linguaggio ambientale. Personalmente credo che tutto questo indichi solamente il crollo della fiducia degli architetti nella propria libertà creativa: perché mai un qualunque architetto, sicuro di sé, dovrebbe desiderare meno possibilità?
L’accettazione dell’etica della sostenibilità stabilisce limiti, obiettivi poco ambiziosi, esalta la precauzione come modus operandi degli architetti. Se, come è stato dichiarato, riciclare è «uno dei massimi generatori di innovazione creativa» di questo secolo, allora le baraccopoli come Dharavi a Mumbai possono essere premiate per la loro creatività e celebrate come incredibilmente innovative per il riutilizzo dei materiali, piuttosto che riconosciute come il prodotto dello sforzo di sopravvivenza di coloro che vivono in condizioni estreme di sottosviluppo.
In realtà, si sta riscrivendo lo stesso significato di innovazione. Potrebbe essere vero, come ha sostenuto un opuscolo pubblicato dal British Council, che i «designer e gli ingegneri sono i risolutori dei problemi meno risolti al mondo». Ma la tendenza a ridurre l’innovazione a semplice «risoluzione di problemi», indica quanto il termine stia esaurendo il proprio interesse. Nel passato, l’innovazione era intesa non tanto come un esercizio di risoluzione dei problemi, quanto come l’utilizzo delle nuove scoperte da parte dei designer, in modalità che soddisfacessero il crescente desiderio di progresso sociale ed estetico. La capacità della società di spostare sempre più avanti gli orizzonti della conoscenza e della scienza, ha permesso progressi decisivi – fossero l’elettricità e la luce elettrica, la produzione industriale o l’energia nucleare.
Negli ultimi decenni si è sviluppata una relazione più problematica con la conoscenza e la ricerca. Il sociologo Ulrich Beck è purtroppo isolato quando ci avverte che nell’epoca moderna la «fonte di pericolo non è più l’ignoranza, ma la conoscenza». Ma se la ricerca, la sperimentazione aperta e l’assumersi rischi sono ora considerati pericolosi, allora non c’è da meravigliarsi che l’innovazione sia ridotta ad una risoluzione dei problemi, nel rispetto di parametri rigorosamente definiti. Con l’affermarsi di una simile tendenza, non sorprende che in architettura un approccio immaginativo e improntato alla libertà di pensiero sia stato ampiamente sostituito da una creatività condizionata da limiti attentamente stabiliti. L’essenza della libertà creativa è perduta.
È venuto il tempo di sfidare l’architettura compromessa, quella nata dal paradosso contemporaneo dei ridotti orizzonti urbani. Al contrario, dovremmo cercare una nuova sensibilità umanistica nell’architettura, che rifiuti di piegarsi alla conservazione, alla regola e alla mediazione, che si esprima al contrario per ottenere obiettivi ambiziosi e incentrati sull’uomo, votati alla scoperta, alla sperimentazione e all’innovazione.
Per ottenere ciò c’è bisogno di dissenso, pensiero critico e ricerca aperta, che costituiscano il fondamento per una nuova dinamica metropolitana.