Nel corso degli ultimi cinquant’anni, sono stati tanti gli episodi di contatto, relazione e reciproca influenza che si sono succeduti tra Italia e Spagna, e Milano e Barcellona ne sono sempre state le teste di ponte». Così scriveva Carlos Martí Arís, architetto di Barcellona nato nel 1948 e mancato lo scorso primo maggio, vittima del Coronavirus.
Sono stati scambi asimmetrici nel tempo, ma dagli anni ’60 agli ’80 è stata l’architettura italiana ad esercitare un ruolo egemone. Martí è stata una delle anime di un gruppo che aveva preso a riferimento due maestri italiani allora giovani, Aldo Rossi e Giorgio Grassi. Lo sguardo era alla città; la passione quella per gli studi tipologici e urbani; l’idea quella di costruire una nuova «architettura della ragione». Si doveva operare con spirito di scissione per fondare una tendenza.

NEL 1976, un anno dopo la morte del dittatore Francisco Franco e due anni dopo la Rivoluzione dei garofani in Portogallo, si tiene a Santiago de Compostela un seminario internazionale cui altri seguiranno. È organizzato da Aldo Rossi e tra i tanti vi partecipano Joseph Kleihues, Oswald Mathias Ungers, James Stirling, Bruno Reichlin, Fabio Reinhart, Alvaro Siza. Il confronto è sull’architettura, ma abbraccia anche politica e cultura e vive dentro l’eco degli eventi. Viene da molti vissuto come un atto fondativo.
Il gruppo è e rimarrà una minoranza operosa, ma di forte riconoscibilità. Salvador Tarragó ne è l’organizzatore appassionato; Martí la coscienza critica. Dà un contributo centrale alla redazione di una rivista, 2C, Costruzione della città, che diviene lo strumento primo di divulgazione e di ricerca. Lo sforzo è di costruire una genealogia di riferimenti, dalle città storiche spagnole al piano di ampliamento della Barcellona di Cerdà (1860), dall’epopea dell’architettura moderna alla sua revisione dopo la guerra. La fede è in un’analisi che si vorrebbe obiettiva e si rivela piena di incertezze. Tra analisi e progetto si gettano ponti e li si scopre pratiche distinte.

SI È PARLATO di Martí a partire da una storia più grande di cui è stato parte. Aveva però una sua personalità forte nell’insegnamento, nella scrittura, nel progetto. Lavora come professore e immagina la scuola come un luogo corale di ricerca, e spesso gli riesce di farla diventare tale. È un bravo pedagogo, perché all’insegnamento sul progetto accompagna l’elaborazione di un discorso. La costruzione e il mestiere, esercitati con Antonio Armesto, rimangono per ragioni generali e per una intera generazione secondari, ed è un limite, perché condiziona la possibilità di sperimentare.
Ha scritto diversi libri tradotti anche in italiano, in una lingua letteraria bella e dai titoli sospesi: Le variazioni dell’identità, La cèntina e l’arco, Silenzi eloquenti. Sono testi più di riflessione che di teoria. Più che un pensiero rivelano pensieri. Martí è stato ciò che pensiamo debba essere un architetto: non solo un artefice ma un intellettuale.