Dopo undici anni è stata tradotta dall’editore milanese Christian Marinotti la raccolta di saggi dello storico dell’arte svizzero Jacques Gubler dal titolo Motion, émotion (Infolio édition, Gollion, 2003).
Assistente di Enrico Castelnuovo e docente al Politecnico di Losanna e all’Accademia di Mendrisio, Gubler si è interessato in prevalenza di architettura del XIX e XX secolo indagando con raro scrupolo filologico eventi e personalità del moderno e individuando temi solo in apparenza secondari. Per cogliere il suo tratto distintivo nell’affrontare la storia dell’architettura, potremmo usare le parole che Gramsci rivolse a Benedetto Croce, quando invitava a studiare gli scritti «minori» del filosofo, «le raccolte di articoli, di postille, di piccole memorie, che hanno un maggiore e più evidente legame con la vita». Lo stesso può valere per lo storico svizzero.

Bisogna rileggersi, ad esempio, le sue cartoline indirizzate a Miriam Tosoni, segretaria di redazione di Casabella quando era direttore Vittorio Gregotti (dal 1982 al 1996) per accorgersi che la cifra stilistica della sua narrazione sta nei «frammenti discontinui».
Di «discontinuità» parla anche Mario Botta nell’introduzione al saggio, riconoscendo all’autore quella capacità di intrecciare passioni erudite e curiosità letterarie che provano «una riflessione approfondita sulla disciplina», ma soprattutto sui «valori primordiali ai quali fa riferimento l’opera costruita».
In tempi di vacuo esibizionismo architettonico, potrebbe apparire astratto riflettere «sulla camminata e l’architettura del suolo», stravagante disquisire sul significato dello «choc ferroviario» o dell’«avventura aerostatica», ininfluente, per l’opera di Viollet-le-Duc e di Livio Vacchini, soffermarsi sulle loro case private e perfino superfluo, nell’era delle tecnologie digitali, trattenersi sulla «scenografia della scala» fin de siècle di Adolphe Appia o di Albert Trachsel.

Tuttavia lo storico svizzero ci dimostra il contrario. Con il suo argomentare coinvolgente che può apparire a volte eccentrico, egli ci illustra l’importanza di temi e questioni che solo il «chiacchierio offerto dal ’gran correre’ della globalizzazione» ha estromesso dal panorama corrente lasciando«gli architetti orfani di autentici valori di riferimento» (Botta).
In una carrellata di casi Gubler affronta, ad esempio, l’importanza dell’autopsia architettonica che con schizzi, riprese fotografiche e letture mirate – dai Carnets di le Corbusier ai taccuini di Alvaro Siza – permette di comprendere la natura di un luogo e la misura dello spazio. La «nuova architettura» si avvera sempre secondo l’autore solo dopo «aver percorso e saggiato con la mano e il piede il peso dei materiali e la pasta della città». Anche la visione «in viaggio» dal treno o quella zenitale procurata dal volo aereo converge verso la conoscenza del territorio: la «velocità rinvia alla lucidità» e tutto si fa più nitido e oggettivo con la percezione cinetica e aviatica.

È lungo l’elenco nella storia della modernità architettonica dei riferimenti ai quali rimandano le emozioni (émotions) procurate dal movimento (motion). In alcuni casi queste sono lo choc riferibile alle tragedie del progresso industriale. L’ingresso, ad esempio, del cemento armato per la costruzione delle opere ferroviarie avvenne dopo la catastrofe di Mönchenstein causata dal crollo del ponte sulla Birse che inghiottì il treno della linea Basilea-Delémont.
Altrettanto significative sono, invece, le ricadute in campo militare della riproduzione (grafica e fotografica) dall’alto di aerostati e aerei perché «non occorrerà separare poi troppo drasticamente il distruttore e il costruttore del territorio» prima di addentrarsi nelle numerose prospettive a «volo d’uccello» o assonometriche delle avanguardie.

Gli ultimi capitoli del saggio di Gubler sono dedicati alla «casa dell’architetto»: La Vedette a Losanna di Viollet-le-Duc e la «little big house» a Tenero di Livio Vacchini. In entrambi è spiegato in che modo il progetto di architettura può configurarsi come una specie di autobiografia, in altre parole come si riflette il ritratto dell’architetto nell’opera che ha ideato.
Un argomento ormai defluito nel voyeurismo della casa del famoso designer di turno, ma che al contrario interessa il «genere riflessivo» come a lungo si è manifestato nell’arte e nella letteratura. L’«esercizio dell’autobiografia» è per Gubler un espediente per «razionalizzare le ossessioni» come illustrano le poetiche di Aldo Rossi e Oswald Mathias Ungers: il primo sostenitore dell’«esame critico delle soluzioni proposte da altri» (analogia), il secondo promotore della tesi che «la tematica e il contenuto dell’architettura possono essere soltanto l’architettura stessa» (tautologia).
«Costruendo la propria casa – scrive lo storico svizzero – l’architetto si palesa, si espone, produce un manifesto». Se Viollet-le-Duc con la sua abitazione semplice, anonima e per certi versi «arcaica», esprime un monito severo nei confronti di ogni «manifestazione dell’individualità e dell’immagine», Vacchini con la sua casa – un prisma scatolare in cemento poggiato su un declivio – dichiara il principio etico che «progresso sociale, modernità e sperimentazione tecnica» sono sempre elementi inscindibili.

Le storie narrate da Gubler sono attraversate dal continuo confronto tra sensibilità e intelletto, tra valori ideali e razionalità. Attento conoscitore delle trasformazioni della città a guidarlo è ancora il «principio speranza» di Ernest Bloch che come riporta nel suo sintetico Abecedario a conclusione del suo saggio, non può che collegarsi al progresso tecnico e alla curiosità per la scoperta: considerazioni condivisibili perché l’indagine storica dell’architettura possa ancora offrirci buoni frutti.