Non ha sorpreso nessuno l’attacco sferrato al governo Maduro da Donald Trump dopo il suo intervento all’Assemblea generale dell’Onu, quando, incontrando i giornalisti, ha parlato del Venezuela come di «un regime che, francamente, potrebbe essere rovesciato molto rapidamente da forze armate se decidessero di farlo».

L’invocazione ai militari perché spazzino via una buona volta il governo bolivariano sembra ormai un ritornello dell’amministrazione Trump: a febbraio era stato l’allora segretario di Stato Rex Tillerson a evocare la possibilità che i vertici militari venezuelani trovassero «il modo di realizzare una transizione pacifica».

Di lì a poco il senatore della Florida Marco Rubio aveva benedetto un intervento delle forze armate diretto a «ristabilire la democrazia con la destituzione del dittatore». Né il governo Usa pare essersi limitato a esortazioni e auspici, considerando le rivelazioni del New York Times sulla serie di riunioni sostenute nel 2017 da funzionari Usa con ufficiali venezuelani ribelli.

Più vaga invece l’ipotesi di un’invasione militare, di cui molto si è parlato dopo le dichiarazioni choc del segretario generale dell’Osa Luis Almagro sulla necessità di «non scartare alcuna opzione». Su questo Trump non si è sbilanciato, dichiarando di non voler rivelare particolari di strategia militare americana.

Intanto, però, il dipartimento del Tesoro ha emesso una nuova serie di sanzioni contro funzionari venezuelani, tra cui la first lady Cilia Flores, la vicepresidente Delcy Rodriguez, il ministro per le comunicazioni Jorge Rodriguez e il ministro della difesa Vladimir Padrino. È in questo quadro, tra sanzioni, minacce di invasioni e aggressioni varie, che assume enorme rilievo per il Venezuela la «cooperazione strategica» con la Cina.

Grande risalto, non a caso, ha ricevuto sabato scorso l’arrivo della nave-ospedale cinese «Arca della pace», attraccata nel porto di La Guaira, a circa 40 km da Caracas, allo scopo di fornire per una settimana cure mediche alla popolazione, dando respiro a un settore sanitario duramente colpito dalla crisi economica e dalle sanzioni.

Già il 13 luglio la forza armata venezuelana aveva informato della visita della nave nell’ambito dell’«operazione strategica integrale combinata» tra i due paesi, rispondendo così all’invio da parte del Pentagono di una propria nave-ospedale, la Usns Comfort, incaricata di fornire aiuto ai migranti venezuelani in Colombia.

L’Arca della pace è solo uno dei 28 accordi di cooperazione – finanziaria, petrolifera, tecnologica, mineraria, culturale e produttiva – sottoscritti da Venezuela e Cina in occasione della visita del presidente Maduro a Pechino a metà settembre.

Il più importante è quello relativo all’aumento della produzione di greggio destinato alla potenza asiatica fino a un milione di barili al giorno entro l’agosto 2019 (rispetto ai 700mila del 2017), accompagnato da investimenti di 5 miliardi di dollari nel settore petrolifero.

Un accordo con cui Caracas, in un momento in cui il prezzo del petrolio è in forte rialzo, arrivando a 80 dollari al barile, mira a rivitalizzare l’industria petrolifera nazionale (la cui produzione è crollata nell’ultimo decennio da 3,2 a 1,4 milioni di barili di petrolio al giorno) e a proteggere le esportazioni dalle sanzioni della Casa bianca e dalle sue minacce di embargo petrolifero.

Di certo, la cooperazione con la Cina non avvicina di un millimetro l’avvento di quella società post-estrattivista ed ecosocialista che pure figura tra gli obiettivi della rivoluzione bolivariana. Per un paese strangolato dall’imperialismo Usa, però, la presenza cinese, pur in un contesto decisamente capitalista, garantisce vantaggi di non poco conto: la potenza asiatica offre la possibilità di ottenere finanziamenti senza l’indebitamento che comportano le politiche tradizionali del Fondo monetario internazionale. E che, a differenza degli Stati uniti, non persegue una politica di intervento e di ingerenza negli affari interni degli altri paesi, «accontentandosi» delle loro risorse naturali e minerarie.