Il paesaggio dell’arboricoltura italiana è stato a lungo espressione di un sistema costituito da un complesso palinsesto formato nei secoli nel rapporto tra conoscenze, lavoro, bisogni, caratteri territoriali. Nel contempo fonte inesauribile, oltre che di economia ed equilibrio ambientale, di fantasie, riflessioni, espressioni d’arte.

COSÌ È ANCORA IN LIMITATE PARTI del territorio dove sopravvivono stentatamente i paesaggi dell’agricoltura tradizionale. Seppure spesso ridotti a mere testimonianze, non smettono di insegnare e concretamente dimostrare l’importanza di una comprensione sistemica e non riduzionista dell’arboricoltura. Non macchine (gli alberi) o industrie (i frutteti) votate alla sola produzione per i mercati, ma sistemi multifunzionali che, a partire dalla imprescindibile funzione produttiva, hanno cura dell’ambiente (perché da esso dipende, in primo luogo, salute e sicurezza dell’abitare e, nel tempo, del lavoro) e degli aspetti culturali. Questi, non solo estetici, si rifanno anche alla necessità di un equilibrato rapporto con gli altri uomini, le piante e gli animali, in una visione non solo economicista o antropocentrica. Frutteti che non sono solo la somma di produzioni, espresse in valori quantitativi o qualitativi ma, come è proprio di una idea olistica, sono qualcosa di più della somma delle parti che li compongono: sono giardini come vengono ancora oggi chiamati in molte regioni mediterranee.

I PAESAGGI DEI SISTEMI AGRARI STORICI erano in prevalenza promiscui e multifunzionali e le scelte colturali rispondevano a una visione basata sulla vocazionalità ambientale e la biodiversità. Verranno, però, travolti, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, dalla crisi della frutticoltura tradizionale che, nella sua parte paesaggisticamente più significativa, è sconvolta da modificazioni sociali che portano all’abbandono dalle campagne nelle aree più svantaggiate in termini agronomici e all’inurbamento. Al contrario, nelle aree più favorite per caratteri ambientali, disponibilità di risorse e infrastrutture, la frutticoltura assume i caratteri della specializzazione monocolturale con la progressiva affermazione della meccanizzazione, l’incremento delle densità di impianto, la diffusione dei fertilizzanti inorganici, degli antiparassitari, dei diserbanti, dell’irrigazione e del drenaggio.

I SISTEMI MONOCOLTURALI SI DIFFONDONO sempre di più in ragione dell’efficienza di gestione e organizzazione tecnica e del risparmio che in relazione alle imprescindibili necessità di energia fossile da cui dipendono per la meccanizzazione, la fertilizzazione e le altre operazioni colturali. In quelli policolturali, il funzionamento del sistema era garantito con pieno successo dal riciclaggio dei residui colturali, dall’equilibrio tra colture e allevamenti, da rotazioni e successioni, dal controllo biologico, del ciclo dell’acqua e della materia organica. Per la valorizzazione dell’energia solare – la sola a sostenerli – e degli equilibri biologici, lo spazio colturale veniva organizzato con un alto livello di complessità strutturale sia a livello di agrosistema (con le consociazioni, il sovescio, la diversificazione varietale…), che a livello aziendale (nell’integrazione con la zootecnia) e di paesaggio (presenza di siepi, fasce boscate, etc).

L’EQUILIBRIO AGROECOLOGICO NEI SISTEMI monocolturali contemporanei regge, invece, con difficoltà e per mascherare la mancanza di complessità e quindi di stabilità ecologica, ha necessità di massicci apporti di energia esterna, generalmente di origine fossile, che incidono negativamente nei bilanci del carbonio. Gli alberi, per dimensione e durata di vita e considerando i consumi di energia non rinnovabile perdono efficacia nelle strategie di contenimento dell’effetto serra. Anche il suolo, povero di sostanza organica, contribuisce a un’impronta carbonica negativa e i residui dei prodotti chimici di sintesi non trattenuti dal sistema, si ritrovano nelle acque e nel suolo a livelli preoccupanti per l’ambiente e la salute. I sistemi perdono la costitutiva resilienza propria delle coltivazioni arboree e mostrano debolezza e incapacità di reazione di fronte a stress che possono avere origine da nuove malattie, cambiamenti climatici, mutamenti nei bisogni dei consumatori.

CONSAPEVOLI DELLA LORO INSOSTENIBILITÀ ma incapaci di allontanarsi dai modelli monocolturali intensivi cercano soccorso nella diffusione dell’agricoltura di precisione, che tra droni e satelliti, dovrebbe portare al risparmio delle risorse e, tra queste, del lavoro umano sostituito in gran parte da robot. Una nuova agricoltura, possibile nei sistemi semplificati della monocoltura ma che contrasterebbero, nel paese delle cento agricolture e in epoca di globalizzazione e di omologazione, con la diversità dei paesaggi arborei, della natura e della storia che li sottendono. Questa invece rimane la grande opportunità. Si manifesta attraverso produzioni legate alla qualità, eccellenti capacità organizzative, numerosi servizi (ambientali, culturali) che costituiscono possibilità di reddito integrativo per le aziende agricole. In questa direzione dovrebbe muoversi l’arboricoltura italiana in considerazione degli attuali squilibri e di quelli, ancora più gravi, derivati dal procedere inarrestabile del climate change, ampliando il proprio ruolo da produttrice di frutti per il mercato alla fornitura di servizi ecosistemici.