Un senso di irrequietezza attraversa la frenetica carriera di Dev Hynes, texano di nascita ma cresciuto a Ilford, nell’east londinese, che dopo un’esperienza nella punk dance band dei Test Icicles, è ritornato in America dove ha messo le basi per il progetto Lightspeed Champion, tutto giocato dalle parti di un’indie folk curioso ma non particolarmente esaltante. Poi problemi seri alle corde vocali che gli impediscono di riarrangiare la colonna sonora di Harold e Maude per una performance speciale richiesta dal British FIlm Institute, lo fermano per quasi tre anni.

Lungo stop proficuo però allo scopo di mettere a punto altre direzioni musicali sotto un nuovo nome, Blood Orange, dove mescola con metodo e creatività l’elettronica all’r’n’b, pezzi che testa in live performance dove si esibisce da solo alla chitarra e con il supporto di un laptop. Freetown sound (Domino Recors) è il terzo album, decisamente il migliore, dentro il quale racconta le sue origini – la madre nata in Guyana e il padre in Sierra Leone – ma parla anche dei vari aspetti dell’essere umano: le relazioni fra le persone, il razzismo, la solitudine, l’amore e il sesso. Per alcuni critici d’oltreoceano Blood Orange è una sorta di Andy Warhol del «pop», di sicuro Freetown sound – seppur giocato sugli elementi tipici del pop soul anni ’80 – è un lavoro atipico. Un unico flusso sonoro dove i falsetti, i picchi funk sono debitori della lezione di Prince e il suo Around the world in a Day o Stevie Wonder del capolavoro Songs in the Key of LIfe.

L’originalità sta però nell’equilibro degli elementi e nella scelta felice degli ospiti, di varie generazioni: in Love Ya Ziggy Marley, Nelly Furtado in Hadron Collider e si scomoda perfino un’icona del calibro di Debbie Harry in E.V.P.