«Mission accomplished». Le bombe che sono piovute ieri sullo Yemen ricordano l’infausta espressione usata dall’ex presidente Usa Bush quando dichiarò la fine della guerra in Iraq. Era il maggio 2003, sarebbero seguiti altri 8 anni di occupazione del paese.

Martedì sera Riyadh ha annunciato la vittoria sul movimento sciita degli Houthi, la distruzione dell’arsenale in suo possesso e quindi la fine delle operazioni militari: lo stop a “Tempesta decisiva” e l’inizio di una fase, “Ripristino della Speranza”, in cui la famiglia reale si sarebbe presa cura dei civili bombardati per tre settimane. E, visto l’ottenimento di tutti gli obiettivi militari, un funzionario saudita ha detto alla Cnn che gli Houthi avevano accettato «tutte le condizioni» poste dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu, ovvero abbandono delle armi e delle zone occupate.

Inoltre, ha aggiunto l’ambasciata saudita a Washington, si sarebbe aperta una nuova fase durante la quale sarebbero stati garantiti aiuti umanitari ai civili e sarebbe stata creata una coalizione internazionale a protezione della costa. Soldati di Riyadh sarebbero rimasti al confine per evitare nuove crisi.

Ieri la speranza è stata vanificata: a poche ore dalla dichiarazione del cessate il fuoco, l’aviazione saudita ha colpito di nuovo il paese. A Taez è stata centrata una base militare del governo ufficiale, occupata dai ribelli sciiti durante la presa di Aden, a Sana’a il quartiere di Faj Attan, a Saada le aree di Manarzaleh e al-Malahiz. Colpite anche le città di Lahij e al-Waht, secondo quanto riportato dall’agenzia stampa iraniana Fars News. Dieci i morti ieri.

«Una catastrofe umanitaria», l’ha definita ieri Robert Mardini, capo della Croce Rossa in Medio Oriente: manca il cibo, mancano medicinali vitali, gli ospedali non funzionano più soprattutto nella capitale Sana’a, rimasta senza elettricità per 9 giorni.

Da parte sua il movimento Houthi ha negato di aver perso nei raid sauditi gran parte del proprio arsenale: Habib Zuhair al-Muslim, uno dei leader del gruppo, ha fatto sapere che veicoli blindati, missili e armi sono custoditi in depositi sicuri, introvabili. Eppure ieri pomeriggio, ha riportato l’Ap, il portavoce Houthi Mohammed Abdul-Salam ha chiesto la fine completa degli attacchi da parte saudita e l’avvio di negoziati sponsorizzati dall’Onu: «Chiediamo, dopo la totale interruzione dell’aggressione contro lo Yemen e la fine dell’embargo, di riprendere il dialogo politico sotto la supervisione delle Nazioni Unite».

Una fonte vicina ai negoziatori ha poi annunciato il rilascio da parte Houthi del ministro della Difesa, Mahmud al-Subaihi, il generale Faisal Rajab e il fratello del presidente Hadi, il generale Nasser Hadi, rapiti a fine marzo. Abdel Malek al-Ijri, membro del politburo sciita, si è spinto oltre: un accordo politico sarebbe stato quasi raggiunto. Un cedimento da parte Houthi? No, perché la precondizione al dialogo – lo stop delle operazioni militari – resta. E, nonostante la violenza dei raid che hanno distrutto case, infrastrutture, aeroporti, stadi, è difficile credere alla “missione compiuta” sbandierata da Riyadh: gli sciiti controllano ancora Sana’a, Aden e il suo porto, una buona fetta del centro del paese, dopo la marcia dalla capitale a sud. Il potere contrattuale Houthi non è intaccato.

E nonostante le vittorie diplomatiche dei Saud – dal voto del Consiglio di Sicurezza Onu alla risoluzione sull’embargo anti-Houthi alle dimissioni dell’inviato delle Nazioni Unite in Yemen, Jamal Ben Omar – a sventolare ancora la bandiera del negoziato è l’Iran che da settimane si fa promotore di un accordo politico di cui ha discusso anche con Ban Ki-moon. Un ruolo solo apparentemente dietro le quinte che non convince affatto gli Stati uniti che martedì hanno dispiegato navi da guerra nel golfo di Aden in chiave anti-Teheran. Obama è tornato a lanciare appelli alla Repubblica Islamica, ma soprattutto accuse: in un’intervista alla Msnbc, martedì sera, ha accusato Teheran di armare i ribelli e aver quindi direttamente contribuito allo scoppio della guerra civile. «Abbiamo detto agli iraniani che c’è bisogno che siano parte della soluzione e non del problema».