L’istantanea del centro storico dell’Aquila è un cielo ammantato di gru. Con lo sguardo che si paralizza, ancor più silenzioso, tra palazzi puntellati e vie interdette. Con la scritta, che comincia a sbiadire, «Zona rossa», ovvero off limits al passaggio, anche pedonale.

I bracci dei mezzi meccanici sono una selva, svettano un po’ ovunque, quasi si litigano un pezzetto d’azzurro, fissando dall’alto fabbricati sbrindellati; sovrastando squarci di edifici signorili, tapparelle deformate e scardinate e pezzi di water e armadi che sonnecchiano, tra mucchi di polvere, dentro appartamenti sventrati, ma con portoni chiusi da catene e lucchetti.

Solitamente, è un brulichio di operai. A sette anni dal terremoto che alle 3.32 del sei aprile 2009 devastò il capoluogo d’Abruzzo e il suo circondario, provocando 309 vittime e oltre 1.500 feriti, è una città disorientata.

Tempi ancora lunghi

La ricostruzione, era stato promesso, sarebbe terminata entro il 2017. Ma i tempi previsti sono ancora lunghissimi. In centro diverse attività commerciali hanno timidamente riaperto e con esse anche alcuni uffici pubblici, tra cui la sede del Comune. Ma, rispetto a prima del disastro, sono una minima parte.

E ciò che si coglie, negli occhi di quanti qui sono tornati ad operare e ad investire, è la rassegnazione. «Si lavora soprattutto con gli operai – affermano i commercianti -. Gli incassi languono, ma dobbiamo andare avanti. E quando i muratori staccano, è come se scattasse una sorta di coprifuoco».

«Il terremoto, quando arriva, non si limita ai pochi secondi della scossa. Continua fino a che non si esaurisce la scia dei danni che ha provocato. Quelli materiali e quelli sociali, mentali e psicologici. Perché il terremoto ti entra dentro e non ti molla. Per questo – riflette il giornalista Enrico De Pietra – non parlerei tanto di 7 anni dal sisma, ma di 7 anni di sisma. Sette anni per certi versi surreali, durante i quali, almeno apparentemente, ci siamo abituati a tutto: ai nostri morti, alla diaspora, al ritorno, alla precarietà, alla provvisorietà, alla desertificazione del centro storico, alle beghe e al malaffare. Ad una cosa non ci siamo però abituati: a non poter avere le prerogative di una normale comunità di provincia, a cominciare dalla possibilità di incontrarsi gli uni con gli altri senza essersi dati appuntamento. Mancano i luoghi per questo; non luoghi costruiti ad hoc, ma i luoghi del quotidiano. E per gli aquilani questi luoghi si trovavano nel centro storico. I quartieri tutt’intorno sono ricostruiti e ripopolati, quasi per intero, ma, non c’è verso, non sono nati per essere autonomi e aggreganti. Oggi – evidenzia – si entra nel cuore della città, la si osserva da lontano, e si capisce che si sta lavorando a pieno regime».

Sono poco più di 420 i cantieri attivi. «Sta di fatto, però, che resta un luogo… sospeso. Le stime ufficiali – aggiunge – dicono che nel 2022 il cuore dell’Aquila sarà totalmente ricostruito. Ma nessuno, nemmeno chi queste stime le ha prodotte, può onestamente dire con certezza se la previsione sarà rispettata».

Periferia «privilegiata»

La vita si concentra nelle periferie, nei pochi centri commerciali che, non essendoci alternative, sono diventati punto privilegiato di aggregazione.

La vita è dislocata soprattutto nelle 19 new town, la cui nascita venne annunciata lo stesso giorno della tragedia. Mentre si piangeva, mentre si scavava sotto le cataste di macerie, sotto i rimasugli di stanze, mentre si allineavano le bare. E mentre alcuni imprenditori ridevano per gli affari che il disastro prospettava.

Sono 8.351 i cittadini ancora assistiti – quelli che hanno le proprie abitazioni inagibili -, sistemati tra i progetti Case, palazzoni antisismici ecocompatibili sorti in piena emergenza e a firma di Berlusconi e dell’allora capo della protezione civile Guido Bertolaso, e nei Map (Moduli abitativi provvisori), le cosiddette casette di legno.

Ma il disagio è anche tra i banchi, per gli studenti: ci sono ancora 17 Musp (Moduli ad uso scolastico provvisorio) che ospitano circa 6 mila alunni.

«Nonostante i numerosi problemi di gestione sorti negli anni – commenta Fabio Pelini, assessore all’Assistenza alla popolazione – queste strutture sono state un punto di riferimento nelle fasi calde del post tragedia (quando ci furono 16 mila sfollati, ndr) ma, successivamente, hanno anche permesso di rispondere alle molteplici esigenze abitative emerse con l’acuirsi della crisi economica. Oggi – aggiunge – la fase più difficile ce la lasciamo alle spalle e il prossimo obiettivo è di razionalizzare l’utilizzo di questo patrimonio immobiliare, conservando gli alloggi ben fatti e smantellando quelli malconci».

Già perché gli edifici del progetto Case, per la cui realizzazione fu speso quasi un miliardo di euro, con l’operazione gestita interamente dalla Protezione civile, stanno mostrando i propri limiti.

Formano sostanzialmente quartieri dormitorio, privi di servizi, che cadono a pezzi, tranne alcune eccezioni. Infiltrazioni negli appartamenti e nei garage, umidità e muffe che favoriscono pure la crescita dei funghi, perdite dagli scarichi, allagamenti, pavimenti che si scollano, problemi fognari.

Nel settembre 2014 è crollato un balcone nella frazione di Cese di Preturo e la magistratura e la Forestale hanno posto sotto sequestro 800 balconi in cinque di questi insediamenti: oltre che a Preturo, anche ad Arischia, Collebrincioni, Sassa e Coppito. E così, in queste case, le famiglie sono costrette a stare ‘sigillate’ tra le mura domestiche, senza potersi affacciare.

Il 3 aprile scorso un altro balcone è crollato, sempre «per cedimento strutturale», sempre nella frazione di Cese di Preturo, dove alcune palazzine erano fortunatamente già state evacuate. A dare l’allarme è stato un signore che passeggiava con il cane. L’uomo ha sentito il tonfo e ha allertato le autorità.

Ieri dal municipio, per questa faccenda, è partita un’ordinanza con cui si dispone, per motivi di pubblica incolumità, lo sgombero di altri appartamenti.

Case nuove, crollano balconi

Per il crollo di Cese c’è un’indagine aperta, per difetti di costruzione e fornitura di materiali scadenti, con 39 indagati. Il legno, per balconi e alloggi, era stato fornito dalla Safwood, sotto inchiesta a Piacenza per crac finanziario.

«Se la Procura dovesse accertare che non solo i balconi ma anche i solai degli appartamenti sono a rischio a causa della stessa pessima fornitura, avrò 700 famiglie cui dare un altro tetto – dichiara il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente -. Inoltre le imprese che nel 2009 hanno costruito le new town dovrebbero, per contratto, intervenire sulle manutenzioni per 10 anni ma molte di esse sono fallite e quindi il Comune non sa su chi rivalersi». Nei casi più gravi e onerosi, dove il risanamento costerebbe milioni, il primo cittadino ipotizza il possibile abbattimento di questi complessi, costati 2.700 euro al metro quadrato e che sono esempio di «spreco di denaro e infiltrazioni mafiose».

Senza dimenticare l’inchiesta sugli isolatori sismici, installati in gran numero sotto le piastre delle new town: durante alcune prove di laboratorio in California, invece di resistere al terremoto simulato, si sono spezzati.

Va così, in una città vuota e smarrita, freneticamente a caccia di occasioni e in cerca di giustizia… Perché sette anni dopo si cerca ancora la verità su quanto accaduto quella funesta notte.

C’è una ferita che s’infila e s’aggrappa, sdegnosa, ai numerosi processi spuntati dal dramma.

Tra essi, a generare più d’ogni altro rabbia e scandalo, c’è quello alla commissione Grandi Rischi. Solo pochi giorni fa la Cassazione ha depositato le motivazioni del verdetto con cui ha assolto i luminari finiti alla sbarra . «I sei esperti della Commissione – recita la sentenza 12478 – convocati a L’Aquila dalla Protezione civile, nella riunione del 31 marzo 2009, non erano al corrente del fatto che la seduta aveva la finalità di fornire alla popolazione un messaggio di rassicurazione». Allora la Protezione civile era guidata da Guido Bertolaso, attualmente candidato a sindaco di Roma.

Per la Suprema Corte, «gli scienziati – Franco Barberi, Enzo Boschi, Giulio Selvaggi, Michele Calvi, Claudio Eva e Mauro Dolce – nella riunione confermarono motivi di allarme per la situazione e negarono la teoria della prevedibilità dei terremoti».

Bertolaso «latitante»

Secondo la Suprema Corte fu solo Bernardo De Bernardinis, l’allora vice di Bertolaso, ad «aver calcato la mano» e ad aver tranquillizzato una città impaurita. «Non accadrà nulla». Ed invece fu una strage. De Bernardis fu imbeccato da Bertolaso? Ci sono telefonate, interviste e intercettazioni che lo provano ma… Bertolaso, per questo, ha due procedimenti aperti, uno penale, in cui è accusato di omicidio colposo plurimo e che il 7 ottobre si prescriverà, e l’altro civile.

«I familiari delle vittime – spiega il consigliere comunale Vincenzo Vittorini – stanno chiedendo a Bertolaso di lasciarsi processare, rinunciando all’imminente prescrizione». In tal senso c’è anche una petizione. “Che la magistratura faccia il proprio corso nell’accertare eventuali responsabilità: questo si pretende. E’ un coro di migliaia di voci a volerlo”.

Per quanto concerne il processo civile, l’ultima udienza è saltata perché Bertolaso risulta essere «irrintracciabile». Quindi niente citazione.

«Vive al quartiere Parioli – dichiara Antonietta Centofanti, referente del comitato “Familiari delle vittime del crollo della Casa dello studente” -, è visibile all’intero Paese con comparsate in tutte le reti televisive pubbliche e private, ma non è rintracciabile da un messo giudiziario che gli deve consegnare una convocazione affinché si presenti in aula. E’ una grave mancanza di rispetto, anche nei confronti dei nostri morti. Che poi quel che è accaduto riguarda tutti e questi sono i morti di tutti».

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