Se a L’Aquila arrivi di notte ti verrà detto di non prendere le vie secondarie della città, perché poco sicure. Se chiedi cosa dovresti rispettare più dei fantasmi dei vivi della città, ti verrà detto che c’è qualcuno che si nasconde a far scherzi: ladruncoli. Se a L’Aquila non vai per un buon motivo, non metterai mai piede a L’Aquila. Nel capoluogo travolto dal terremoto nel 2009 abita il cemento. Segue il rumore, costante, come il vento che arriva solo a folate o l’odore di legno che cede: l’acqua che cade dalle tubature rotte da tredici anni.

ARRIVI E IL TERREMOTO è manifesto, presente fisicamente: non si riesce a smettere di guardare, tra l’imbarazzo e l’incredulo, il palazzo aperto a metà, la chiesa sventrata dal cielo, la casa con i lucchetti arrugginiti alla porta e dentro la libreria china su se stessa e coperta di polvere. Viene da chiedersi quanto siano davvero centocinquantasei mesi nel tempo reale, quello che ogni mattina ha una sveglia, una camicia pulita e un lavoro. «Dove vivi? E la casa tua come sta? Sei tornato?», non si parla più di ricostruzione, non da tre, quattro anni, dice Emanuele Sirolli, psicologo, tra i fondatori dell’Onlus 180 amici, associazione che si occupa di tutela mentale. «Diciamo che a L’aquila il trauma è stato elaborato, ma c’è stata tutta un’altra forma traumatica di gestione dell’emergenza, d’organizzazione, che ha fatto si che la gente si sentisse istituzionalizzata».

LA POPOLAZIONE È STATA fermata, recintata, – «io stesso, al tempo tirocinante, facevo fatica ad entrare lì dove le persone chiamavano per un aiuto psicologico» -, e tranciata in due: una parte spedita verso la costa o in alberghi limitrofi alla città, un’altra nei campi costruiti dalla Protezione Civile. «La divisione ha creato forme di rottura sociale, c’era chi diceva – ‘noi siamo rimasti a dormire dentro le tende perché non abbiamo abbandonato il luogo, voi ve ne siete andati -». Scappati, sottolinea Emanuele, e colpevoli di essere terremotati. La ricostruzione mediatica de L’Aquila è passata sopra i quartieri, le periferie, i comuni poco distanti, vedendo sfilare prima Silvio Berlusconi, Guido Bertolaso, televisioni, giornali comodi, e solo dopo, quando la polvere si era calmata, i progettisti, gli operai, i muratori, ma la vita è rimasta altrove.

SOTTO LE MACERIE, dove la vista non arriva. «Milioni di euro», il 4% dei fondi stanziati, «ma lo Stato ricostruisce le città, non la società». Federico Bologna, avvocato, ha rimesso in piedi quello che di prnato era possibile riedificare, ma sul tessuto civile è rimasto a guardare, spostando un’altra pietra e nascondendo altra polvere sotto il tappeto. E quando questa si alza, silenziosa tra i vicoli secondari, ti porta la vista ai palazzi pubblici ancora nudi e imbrigliati dalla burocrazia, nei teloni bianchi che sventolano nascondendo i corpi dei manovali, bloccandoti in un vicolo cieco dove trovi l’esilio dello sguardo. «Sono tutti non-luoghi, tanti appartamenti son vuoti, chiusi. La ricostruzione di una società passa attraverso lo sport, le attività culturali», ma questa idea di struttura non è mai iniziata, «non c’è dibattito. La povertà è tanta, ma ci devi andare per vederla».

L’AQUILA È UNA CARCASSA che il tempo ha consumato, spogliandola delle sue anime e privandola della prospettiva della realtà, dove la speranza ha banchettato finché la sua stessa quotidianità, fatta di impalcature che ombreggiano il sole e rumori metallici, è diventata ordinaria. Federico dice che si fa finta di non vederlo il disagio, ma c’è, ed «è pure difficile da capire, ci si è abituati a questo. La normalità di una città tutta intera noi l’abbiamo dimenticata». E quando vieni dalla città intera questo stato delle cose ti taglia il fiato, perché sei tu che non sei abituato al costante richiamo del trauma, alla sua voce fredda e la sembianza così evidente. «A casa mia ci sono una decina di gru, ferme o in lenta ricostruzione. Piano piano ci accorgiamo di palazzi nuovi o di altri mancanti. A un certo punto passavi per L’aquila e non riuscivi a ricordare cosa c’era di fronte a quel vuoto, com’era fatto il palazzo che era stato abbattuto o crollato», mima Emanuele. «Questo cambiamento lento ma continuo destabilizza, si cerca un’abitudine», e allora si fa quasi come non esistessero determinati eventi, «s’ignorano, in un certo senso. Questa potrebbe essere un’alterazione psicologica».

L’Aquila, vista dei cantieri della ricostruzione nel 2019, foto Attilio Cristini

ABITARE IL TRAUMA è una forza di volontà, che pure non toglie il bello dalla coscienza. Carla Canali fa la guida turistica a L’Aquila dal 1987, cammina a memoria d’occhio per strada: descrivendo la chiesa di Santa Maria Paganica te ne restituisce l’immagine integra, e dalla vista dimentichi i brandelli di affresco abbandonati al sole, – «la Basilica di San Bernardino da Siena ha ritrovato nel restauro il soffitto ligneo decorato d’oro» -, ma è l’intensità della sua parola che te ne mostra il sentimento. «Coloro di quaranta, cinquant’anni, che hanno vissuto il sisma, che ricordano la città com’era, avvertono di più questa differenza. Le nuove generazioni non erano nate o non rammentano». C’è un’altra percezione, spiega Carla, e anno dopo anno i segni della ricostruzione si vedevano nelle abitudini della socialità, nei luoghi – pochi – di incontro tradizionali.

«QUI SI VIAGGIA COME CAMBIA il vento», e si è dovuti sottostare anche al Covid. La fiaccolata commemorativa del 6 aprile è tornata dopo due anni, illuminando le strade. Sotto i colpi del sisma a cadere fu anche la Basilica di Collemaggio, della quale restavano solo le pesanti ossa a terra: il restauro ha segnato ‘la rinascita di una città’, ed è stata premiata nel 2020 con l’European Heritage Awards dalla Commissione Europea ed Europa Nostra nella categoria ‘conservazione’.

ENTRANDO, LO SGUARDO degli affreschi di Antonio da Atri e Carl Ruther restituiscono il sentimento religioso che guida la Perdonanza Celestiana, primo giubileo della storia, celebrazione istituita da Pietro Celestino da Morrone. «In ogni anno che sta passando, di questi ultimi tre, quattro, posso offrire un monumento in più», il che significa che qualcosa va avanti e che, in un luogo abbandonato dalla misericordia, il perdono è divenuto simbolo di resistenza. E a L’Aquila, oggi riaperta ma sorretta in parte da stampelle in ferro, spopolata delle famiglie che se ne sono andate o non più tornate, manca ancora un ripristino economico. Con il freddo i bilanci si fermano, si contano i cartelli «scavi» sparsi per la città, le scritte vandaliche sui muri scrostati: si ricordano gli universitari che persero la vita, il fermento e la rabbia dell’attesa infinita, i movimenti culturali e politici che nacquero – quello delle carriole fra tutti.

LE FRAZIONI DIMENTICATE, la periferia che cresce. «Le case sono belle, funzionali. C’è stato un grande sforzo, tutto è stato fatto in fretta e tutto il mondo ha detto che mai c’è stato un intervento così forte, così importante, così decisivo di un Governo come dopo il terremoto de L’Aquila». Carlo Rossella liquidava così le immagini di Draquila, di Sabina Guzzanti, mentre questa, sfilando vestita da premier, denunciava lo show targato B&B andato in onda tra le macerie del terremoto. Era un monito, a vederlo oggi, verso chi rimanendo aspettava che gli venisse restituita la dignità di una città: «lo Stato fallirà». E così è stato.