L’Istat rettifica la sua precedente stima sulla crescita del Pil nel terzo trimestre: non «crescita zero» ma calo dello 0,1% rispetto al trimestre precedente. È la prima volta dal secondo trimestre del 2014, c’entra il calo della domanda interna e degli investimenti. Con questi numeri, una crescita all’1,5% nel 2019 non è plausibile nemmeno nel mondo dei sogni.

Ma in generale, è giusto l’approccio del governo al tema della crescita e a quello della tenuta dei conti pubblici? Non si direbbe. Come con i governi precedenti, manca un’analisi rigorosa su come è distribuita la ricchezza nel Paese, quindi sul pregiudizio che la disparità di reddito arreca all’economia.
In una economia di mercato, prima dell’intervento pubblico, la distribuzione del reddito è fortemente diseguale. Non a caso si parla di «reddito primario» e di «reddito disponibile», che poi è la differenza tra quanto si guadagna sul mercato e quanto ci si ritrova in tasca dopo l’intervento redistributivo dello stato (tolte le tasse, aggiunti i trasferimenti monetari).

Generalmente, per misurare il grado di disuguaglianza nella distribuzione del reddito e valutare l’efficacia delle politiche redistributive statali si utilizza il cosiddetto «coefficiente di Gini», un numero compreso tra 0 e 1, indicativo, se pari a 0, di una perfetta distribuzione della ricchezza, ovvero della concentrazione della stessa nelle mani di una sola persona, se pari ad 1.

Nel nostro paese, l’indice di Gini sarebbe del 4,5 e del 3,3 rispettivamente prima e dopo dell’intervento pubblico. Tradotto: grazie al «lavoro» dello stato, staremmo meglio degli Stati Uniti, ma ci collocheremmo al ventesimo posto in Europa in quanto a distribuzione della ricchezza, davanti soltanto al Portogallo, alla Spagna, alla Grecia, alla Romania ed alla Bulgaria.

Oxfam Italia, infatti, ha stimato che nel 2017 il 40% più ricco della popolazione italiana deteneva l’85% della ricchezza nazionale e il restante 60% più povero solo il 15%. Non solo: la ricchezza dei 14 miliardari più ricchi era pari a quella del 30% più povero della popolazione, nel suo insieme.
Disuguaglianze crescenti, povertà da record. Nel 2017, secondo l’Istat, le famiglie in povertà assoluta erano 1 milione e 778 mila (5 milioni e 58 mila individui, l’8,4% della popolazione) nel nostro paese. Oltre tre milioni quelle in povertà relativa (10 milioni di persone), primi nell’Europa a 28 (il 12% dei poveri di tutta l’Unione vive in Italia).

Se nella predisposizione del Documento di economia e finanza (Def) e del bilancio dello stato si partisse da questi dati, anziché dalle previsioni sulla crescita del Pil e dagli obiettivi di finanza pubblica (un rovesciamento di paradigma), il problema del deficit sarebbe superato, o comunque non avrebbe il peso che ha attualmente.

Si metterebbero al primo posto gli «interventi redistributivi» (compreso il reddito di base), il cui finanziamento andrebbe a ricadere per la gran parte sui redditi della minoranza più ricca del Paese, senza ricorrere ad un allargamento del disavanzo pubblico, se non per la parte relativa agli investimenti (la spesa in deficit non è sbagliata in assoluto).

Più progressività fiscale, riduzione della disparità di reddito tra i cittadini, maggiore crescita.  Perché una redistribuzione verso il basso della ricchezza produrrebbe anche effetti positivi sull’economia. Chi ha di meno tende a spendere quasi tutto il reddito a disposizione, chi ha troppo deve per forza risparmiarne una parte, che aumenta all’aumentare dello stesso reddito. Si chiama «propensione marginale al consumo», c’è in tutti i manuali di economia. Marx parlava di «tesaurizzazazione», denaro sottratto alla circolazione e «cristallizzato».

Una maggiore equità sociale, a sua volta, aiutando la crescita dell’economia, farebbe bene anche ai conti pubblici. Su il Pil, giù il debito. Due piccioni con una fava. Perché non si fa? Perché, ad esempio, dal 1974 ad oggi, siamo passati da 32 (massima al 75%) a 5 (massima al 43%) aliquote Irpef ed ora, addirittura, si blatera di «tassa piatta» al 15% per tutti, ricchi e poveri?

Per dirla con Luciano Gallino, perché la «lotta di classe alla rovescia» l’hanno vinta i ricchi. Ed ai poveri, adesso, si fa credere che la «guerra al sistema» si faccia a colpi di decimali di deficit sul Pil.