Nel 1974 il Malesia Hotel di Bangkok costava un dollaro e mezzo a notte ed era una sorta di bordello a cielo aperto per militari stellestrisce in libera uscita. In apparenza però aveva il lusso di un quattro stelle, una piscina notevole e camere ammobiliate all’americana, spaziose e pulite. Per quella cifra non avevamo mai visto nulla del genere nei sei mesi che avevano accompagnato il nostro “Viaggio all’Eden”, il percorso che negli anni Settanta intere carovane di giovani europei e americane calcavano in cerca di se stesse e del miglior hashish del pianeta. Al Malesia, dove i frikkettoni venivano indirizzati da chi prima di loro aveva fatto la deviazione Sudest asiatico, l’erba – la famosa e potente thai stick – si vendeva al quarto piano. L’eroina anche. Al bar della reception stazionavano minute prostitute locali che aspettavano il soldatino di turno e si divertivano probabilmente quando la polizia faceva irruzione e pizzicava qualche straniero troppo “fatto”. Pene severissime. Lentamente avevamo capito tre cose della Thailandia: la prima era che si trattava inequivocabilmente di una retrovia della guerra in Vietnam, che la guerra aveva fatto della prostituzione un business gigantesco, che i militari americani chiudevano volentieri un occhio se, per evitare la diserzione, il sergente Smith o il soldato Brown facevano un tiro di “bianca” o spinellavano tra le braccia di una ragazza “pam-pam”, termine inequivocabile per indicare il su-e-giù a pagamento. A Bangkok c’erano bordelli ovunque: bar equivoci, case chiuse aperte sulla strada, loculi in cui una decina di ragazze erano esposte con un numero sulla camicetta. Non indicavi il loro nome, chiamavi il numero come al lotto. Con un traffico caotico, ristoranti e ristorantini di cucina raffinatissima, mercati della frutta ondeggianti sul fiume, Bangkok non era priva di fascino ma era troppo lontana dalla magia del Viaggio all’Eden. Bisognava andare oltre, perdersi altrove, ritrovare quella spiritualità tipica dell’Asia che a Bangkok sembrava schiacciata da un flusso di dollari e di modernità a poco prezzo.

La prossima destinazione era Vientiane, nel Laos, percorso che si copriva con treni e autobus non sempre sincronizzati. Su quella strada ci toccò così un’altra manifestazione della stretta relazione che la guerra aveva coi territori che le funzionavano da anticamera o retrovia. Vicino a Udon Thani, ormai vicini alla frontiera col Laos sul Mekong, ci capita di dormire davanti a una base americana, sdraiati all’aperto su una stuoia aspettando l’autobus,. Di fronte c’è una casetta a due o tre piani con le finestre chiuse. Verso mezzanotte – o forse all’alba – alla base suona la libera uscita e frotte di marine tanto rapati quanto noi eravamo zazzeruti, si riversano fuori alla spicciolata.

Nello stesso istante, le finestre della casetta, che doveva essere stata costruita come annesso della base, si aprono mostrando una pletora di bellezze locali che con fischi e richiami indicano al marine la strada – davvero poca – per trasformare l’incubo della guerra in un sogno d’amore. Il conflitto vietnamita era una sorta di contagio così esteso e profondo che andava ben oltre quel che leggevamo sui giornali a proposito della Ho Chi Minh road, dei bombardamenti in Cambogia (di cui allora si sapeva pochissimo) o della situazione nel Laos dove la guerra era in corso anche se, proprio in quello spicchio di vigilia del 1975 – quando gli americani lasciarono il Vietnam – nella capitale laotiana regnava una calma sospesa: silenziosi come ombre si fronteggiavano i Pathet Lao, la guerriglia comunista, e le truppe fedeli a Suvanna Fuma il cui fratellastro, Suvanna Fong, stava invece coi “rossi”. Vientiane aveva una sua magia postcoloniale: nel centro della città le indicazioni dei compagni di viaggio avevano segnalato il Lido Hotel, albergo interamente in legno e bambù completamente degradato rispetto al fasto che aveva dovuto conoscere ai tempi dell’Indocina francese. In Laos l’inflazione galoppava così veloce, che la carta moneta sembrava quella della repubblica di Weimar e il resto al ristorante te lo davano cavando una cariolata di biglietti di banca da un pentolone.

Il Lido costava un dollaro la doppia (1200 kip) e per una cifra di poco superiore potevi accomodarti in un ristorante francese poco distante dove, meraviglia delle meraviglie, potevi permetterti per 1000-1500 kip una bottiglia di Bordeaux che l’iperinflazione aveva reso abbordabile. C’erano altri vizi disponibili nella corrotta a Vientiane e tutti attorno al Lido. Le fumerie stavano a due passi, tra un grande stupa e il Morning Market, e consentivano anche agli stranieri di assaporare l’oppio del Triangolo d’oro in lunghe pipe di bambù nel cui fornello un anziano e magrissimo dispensatore infilava la piccola miscela estratta dal papavero. Quanto all’erba, diffusissima come in Thailandia, non era difficile reperirla. A Luang Prabang, l’antica capitale, la vendevano al mercato praticamente a fascine. Era un villaggione sul fiume che offriva uno spettacolo fantastico non solo naturale ma soprattutto umano quando dalla montagna scendevano a far la spesa le famiglie Lao della montagna completamente vestite di nero.

Fraternizzammo coi Pathet Lao, chiacchierammo con qualche monaco progressista, cercammo di capire cosa stava succedendo. Non se ne parlava di avvicinarsi all’ambasciata americana, inaccessibile come una fortezza Bastiani. A quella sovietica in compenso erano felici di accogliervi. Il diplomatico di turno ce la spiegò così: «Questi sono Paesi indipendenti e ora stanno decidendo che strada prendere. Noi stiamo a guadare ma siamo una nazione amica. Se ci chiedono una mano…». Il suo sorriso nel sospendere la frase indicava che le cose stavano andando per il verso giusto. Mancava una manciata di mesi all’epilogo di una guerra che agli americani era costata vite umane, denaro e soprattutto la faccia.

Perdere la faccia in Asia è la cosa più terribile che possa accadere. Lo avevamo capito nei mesi che avevamo passato nel continente percorrendolo tutto a piedi, con mezzi di fortuna, treni affollati, autobus zeppi di umanità e galline. Nonostante la propensione alle droghe e una certa riluttanza ignorante delle mete abituali dei turisti (niente musei o mostre da visitare), eravamo stati in mezzo alla gente e avevamo vissuto molto spesso come loro: mangiato le stesse cose, condiviso un’ospitalità inusuale, imparato a conoscere le regole profonde della tradizione e della convivenza. Molti di noi ci avevano anche lasciato la pelle, si erano ammalati di ameba o persi entrando con leggerezza nel mondo degli stupefacenti, non facendo troppo caso al rischio della dipendenza. Avevano insomma dato retta a quel cinese di Penang, in Malaysia, che gestiva una delle ultime fumerie di un Paese dove per un grammo di eroina potevi prendere 30 anni di galera e per un chilo la condanna a morte: «L’oppio fa male? Ma no, anzi, è un toccasana per i problemi intestinali». In effetti arresta la diarrea e lenisce il dolore ma non si limita a quello.

Trenta o quarant’anni dopo, l’appendice orientale del Viaggio all’Eden è una zona del mondo dove i cambiamenti sono i più evidenti. L’Indonesia è diventata a poco a poco un Paese più equo che ha cancellato una delle dittature più longeve della storia. La Malaysia continua la sua difficile navigazione in una nazione dove convivono tre gruppi etnici (malesi, cinesi, indiani) e dove si è trovato un equilibrio tra le spinte radicali dell’islam e il suo messaggio egualitario. Una ricetta che andrebbe studiata più in profondità. L’ex Indocina francese, l’ex delta della guerra che si svolgeva attorno al grande fiume Mekong e lungo lo stretto intestino vietnamita coinvolgendo tre Paesi, è oggi un’area dove i giovani non si ricordano nemmeno più della guerra degli anni Settanta. Gli americani son tornati ma per fare affari e il Vietnam, Paese spazzato dal napalm e distrutto da decenni di conflitto (prima coi francesi poi con gli Usa) è una delle punte dello sviluppo del Sudest asiatico. Ho Chi Minh Ville è una città splendida e raffinata, le spiagge sono ancora poco affollate e i prezzi accessibili, la gente aperta e disponibile, il cibo una meraviglia. Producono anche un vino locale e ottima birra.

Allora tornammo a casa col fiato sul collo di un conflitto che avevamo percepito nel Sudest e che ci aveva spiegato come anche la Guerra fredda avesse le sue guerre calde, messe in opera per interposto Paese. Una cancrena che si diffondeva oltreconfine. In compenso avevamo anche approfittato dell’equilibrio, in realtà incerto, che la Guerra fredda aveva garantito in gran parte dell’Asia che comunque le sue guerre le combatteva lo stesso (basta pensare a India e Pakistan). Stavamo tornando a casa, dannazione. Fu un volo dell’Aeroflot per Parigi via Mosca a riportarci nel Belpaese. Fu una scelta dettata dall’economicità dei voli sovietici ma anche dal desiderio di avere ancora uno spicchio del nostro Viaggio all’Eden. Una vodka nel ristorante dell’hotel in cui facemmo scalo, un piccolo Kir nella Ville Lumiere, edizione francese del bianco spruzzato (o dello spritz) con cui avevamo iniziato a progettare il Viaggio all’Eden. Si prepara con otto o nove parti di vino bianco e una di Cassis, liquore dolce tratto dal ribes. Abbastanza per coltivare il sogno di una nuova partenza. Non importa se all’Eden o no.

(10 – fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 20, 21, 23, 27, 29, 31 agosto, 4, 6 e 8 settembre)