La farsa è compiuta. Davanti agli occhi del mondo, e alla presenza di Geoffrey Robertson, celebre avvocato della Commissione per i diritti umani delle Nazioni unite, i giudici del Tribunale regionale federale della 4a Regione (Trf-4), João Pedro Gebran Neto, Leandro Paulsen e Victor Luiz dos Santos Laus, hanno voluto dare seguito, come era stato da tutti previsto, all’aberrazione giuridica rappresentata dal processo all’ex presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, confermando all’unanimità la condanna per «corruzione passiva e riciclaggio di denaro e addirittura aumentando la pena a 12 anni e 1 mese di reclusione (contro i 9 anni e 6 mesi della condanna in prima istanza).

PER I GIUDICI DEL TRF-4, esisterebbero insomma, come ha affermato Gebral, «prove al di sopra di ogni ragionevole dubbio» che l’immobile dell’impresa Oas per cui Lula è stato processato fosse destinato alla sua famiglia.
Quanto al mancato trasferimento della proprietà all’ex presidente, non sarebbe essenziale per «comprovare il riciclaggio di denaro», come pure non sarebbe significativo il fatto che non si sia individuata la contropartita per l’impresa: anche la sola promessa di favori configurerebbe per Gebral il reato di corruzione.

Si avvia così a conclusione anche la terza fase del colpo di Stato parlamentare realizzato dalle destre – «un golpe dentro un golpe» è stato definito il processo -, dopo la destituzione di Dilma Rousseff e lo smantellamento dei diritti conquistati dalla classe lavoratrice.

 

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Manifestante anti Lula davanti al tribunale di Porto Alegre in cui si è svolto il processo d’appello (foto LaPresse )

 

E benché il discorso non sia ancora definitivamente chiuso – rimangono infatti altre possibilità di ricorso, che hanno per ora salvato Lula dalla prigione – il rischio che la popolazione più povera del Brasile resti senza il suo candidato (ben al di là dei tanti dubbi sulla politica espressa dall’ex presidente operaio) è da oggi estremamente serio.

E questo sarà probabilmente, come è stato notato, l’unico vero effetto politico dell’operazione Lava Jato, impropriamente definita come la «Mani Pulite del Brasile».

SE È VERO infatti che anche tutti i più grandi avversari di Lula sono stati coinvolti nell’inchiesta sulle tangenti legate al colosso petrolifero statale Petrobras, è lui, tuttavia, come ha sottolineato il sociologo brasiliano Celso de Rocha Barros, «l’unico condannato politicamente rilevante». Non a caso, l’ex presidente della Camera dei Deputati Eduardo Cunha, uno dei principali artefici della destituzione di Dilma Rousseff, è stato, sì, condannato a 15 anni e 4 mesi di carcere, ma solo a impeachment ormai consumato, e dunque dopo aver perso interesse agli occhi dell’élite.

E se lo stesso presidente Michel Temer, contro cui pesano prove schiaccianti, verrà mai condannato, ciò accadrà «solo quando sarà ormai diventato politicamente irrilevante».

MA ORA, È LA DOMANDA che si pongono tutti, cosa succederà? Di sicuro, la difesa di Lula ricorrerà a istanze superiori, come il Supremo tribunale federale, i cui ministri si sono rivelati senz’altro meno ostili nei confronti dell’ex presidente operaio (la presidente Cármen Lúcia ha anche invitato Lula al proprio insediamento, quando era già indagato nell’ambito dell’inchiesta Lava Jato). E altrettanto sicuramente il Pt lancerà la sua candidatura, che tuttavia, dopo la sua registrazione entro il termine massimo del 15 agosto, potrà essere impugnata da altri partiti, dal pubblico ministero o da semplici cittadini, sulla base della legge Ficha Limpa emanata dal governo Lula nel 2010, che proibisce a chi sia stato condannato in secondo grado di presentarsi alle elezioni.

Che il Partito dei lavoratori non abbia un piano B, è stato, del resto, detto e ripetuto, perché, come ha spiegato per esempio Tarso Genro, ex governatore del Rio Grande do Sul ed ex ministro della Giustizia, parlare di piano B significherebbe ammettere la legittimità del processo contro Lula.

«L’UNICA COSA di cui sono certo è che solo alla mia morte smetterò di lottare», aveva dichiarato Lula, parlando la mattina nella sede del Sindacato dei metallurgici dell’Abc (la regione industriale dello Stato di San Paolo) a São Bernardo do Campo, dove ha seguito l’udienza d’appello, aggiungendo che l’unica decisione giusta da parte dei magistrati sarebbe stata la revoca all’unanimità della condanna espressa dal giudice Sérgio Moro.

Ma non è andata così e neppure si aspettava che lo fosse. «Se non avverrà – aveva detto – «avremo molto tempo dinanzi a noi per cercare di mostrare le menzogne raccontate contro il Pt e contro di me».