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Nella tendenza giovani-che-devono-svoltare (un lavoro, un futuro, chissà … ) molto diffusa nel nostro cinema oggi – cosa di meglio infatti per garantire materia di commedia e un occhio alla realtà precaria e in bilico del presente? – Fin qui tutto bene inserisce un altro motivo ricorrente: la nostalgia «generazionale». Un sentimento che da qualche tempo attraversa le storie italiane quando si parla dei trenta/quarantenni, di coloro cioè che sono diventati adulti, o che stanno entrando nella dimensione adulta con tutto quello che ne consegue. In sintesi lavoro, famiglia, figli, sogni di ragazzi messi da parte, mutazioni antropomorfiche verso la stronzaggine ecc ecc (fa molto anni Cinquanta ma tant’è: sarà questo il segno dei nuovi tempi?).

 
Per il suo secondo film, molto atteso dopo il successo di I primi della lista, Roan Johnson rimane dunque ai giovani, alla commedia generazionale stavolta però declinata al presente. Eccoci nell’appartamento pisano sui tetti della città (dove ha studiato anche il regista) di cinque ex studenti amicissimi (sarebbero stati sei, uno però si è suicidato), era il bozzolo protettivo compreso di piscinetta di giorni spensierati ma ora è finita: la laurea e si diventa grandi, il vuoto sta arrivando con l’incubo del lavoro e delle «grandi scelte».

 
A dire il vero per una di loro (Silvia D’Amico) tutto è già deciso: aspetta un figlio dall’ex amante sposato e tornerà dai suoi a Frosinone. Lui non ne vuole sapere, di abortire non se ne parla – la sorella non può avere figli e chissà mai che anche lei in futuro – e una vita propria figlio-munita è impensabile. Ci vuole un marito al punto che sarebbe quasi disposta a mettersi col compagno di casa bruttino e un po’ innamorato di lei.
Un altro invece ha vinto la cattedra in Islanda cosa che provoca la rottura della sua storia d’amore. La fidanzata teatrante lo lascia perché: cosa faccio io lì col mio teatro? Ha una compagnia abbastanza scarsa insieme un altro amico della casa che passa il tempo a rodersi pensando alla ex. Anche lei lo ha lasciato (è Isabella Ragonesi) perché è diventata famosa – con la tivvù, orrore.
Infine c’è il Cioni, quello bruttino di cui sopra (Paolo Cioni) non poteva mancare in Toscana, col vecchio Cioni Mario benignano niente in comune (anche se un po’ci pensa).

 
Di umorismo in questa commedia però ce ne è poco, e della cattiveria di una toscanità a cui comunque il regista fa abbastanza riferimento (il Pieraccioni prima maniera per dirne uno) pure. Tutto è prevedibile, risata in testa, sempre rassicurante, sempre riconoscibile come quei personaggi fin troppo schematizzati nelle loro reazioni e nel loro disegno da risultare talvolta stucchevoli. Da un film che rivendica come valore aggiunto l’indipendenza produttiva ci si aspetterebbe un gusto del gioco molto più libero, scanzonato, irriverente. Invece questi tipi da commedia sono così perbene pure quando vogliono essere cattivi – a parte un passaggio, la telefonata figlia/padre frosinate, geniale Mario Balsamo – o quando lasciano affiorare meschinità e «rosicamenti» dietro la grande amicizia degli anni universitari che non ci sono più. E questa campionatura facile facile, si lega a una regia ammiccante (potremmo essere in una fiction italica) attenta a non deludere nessuna aspettativa. L’indipendenza infatti non è mai solo questione di soldi