Pennywise il clown assassino, vampiro che si nutre del terrore delle sue vittime, lo conoscono tutti, anche quelli che hanno frequentato Stephen King solo di sfuggita. Nel catalogo dei mostri del re dell’horror figura ai primi posti e forse al primo in assoluto: incarna un archetipo della paura, riflette e amplifica quella sottile inquietudine che da sempre accompagna la figura del pagliaccio da circo, moltiplica l’effetto spiazzante celando un concentrato di pura malvagità sotto parvenze che mandano in visibilio i bambini, sue vittime preferite.

Con i mostri lo scrittore che ha appena varcato la soglia dei 70 ci sa fare da sempre. Se oggi nessuno può sottrargli il merito di aver rifondato la narrativa della paura e del soprannaturale è in buona parte per la capacità di rinnovare la galleria delle incarnazioni del male, spazzando via la polvere che appannava i quadri noti del vampiro o del licantropo o dello spettro. Quei sentieri, nell’uno o l’altro dei suoi 60 e passa romanzi per non parlare dei racconti, King li ha ripercorsi tutti. Ma sempre a modo suo: spesso citando ma senza mai copiare. Dal momento che It assume le forme di volta in volta più temute dal soggetto che in quel momento perseguita, solo nel romanzo appena trasferito sugli schermi compare un intero plotone di figure terrificanti, eppure nessuna è inquietante quanto l’incarnazione più comunemente scelta dal mostro: Penny il clown.

Non stupisce, in uno scrittore abituato a fondare i suoi oscuri castelli immaginari su solide basi di realismo, che alcuni dei più riusciti e spaventosi abitanti dei suoi incubi siano figure che poco hanno a che spartire con il sovrannaturale: come Anne Wilkes, l’infermiera pazza e sadica di Misery che contende il podio a Pennywise. Del resto una delle scene più terrificanti descritte da King, in Dolores Claiborne, consiste nello strizzare lenzuola fradice nel gelo dell’alba nel Maine. Nessuno come lo scrittore di Bangor sa che per gelare il sangue non c’è necessariamente bisogno di scomodare il sovrannaturale. Non sorprende neppure, in un autore che soprattutto nella prima fase della sua carriera era estremamente attento ai condizionamenti che fanno emergere il lato oscuro anche in persone fondamentalmente positive, che alcuni di quei mostri, come il Jack Torrence di Shining, ex bambino torturato dal padre che finisce per ripetere il copione con il figlio adorato, o l’Arnie Cunningham di Christine, adolescente nerd vessato dalla ferocia dei coetanei, siano figure tragiche, più vittime che persecutori.

Persino Randall Flagg, il più ricorrente tra i maligni dell’universo kinghiano, alla sua prima apparizione nell’Ombra dello Scorpione, dunque molto prima di ricomparire come subordinato del Re Cremisi nella Torre Nera, quando era quanto di più vicino a un’incarnazione del demonio King avesse creato sino a quel momento, si presentava come un qualsiasi hobo in blue jeans stinti, neppure del tutto consapevole della propria diabolica funzione, quasi fosse anche lui una marionetta mossa a piacimento dal Male.

Con gli anni Stephen King ha costruito una cosmogonia moderna, palesemente influenzata dalla mitologia titanica di H. P. Lovecraft. In una delle sue numerose apparizioni nelle opere di King Flagg è chiamato apertamente Nyarlatothep, che tra le mille creature abominevoli che popolano i racconti del Solitario di Providence è l’unica ad assumere aspetto umano. La cosmologia di King fa perno sul ciclo della Torre nera ma si estende anche a molti romanzi e racconti che non fanno parte a pieno titolo del ciclo, tra cui lo stesso It. Nella loro lotta contro l’essenza del Male, i Losers, gli adolescenti sfigati che possono combattere l’essere approdato nella città di Derry da un’altra dimensione milioni di anni prima proprio grazie alla potenza di un’immaginazione ancora non erosa dalla crescita, sono assistiti da una misteriosa tartaruga gigante, proveniente come It da un’altra dimensione. Nel romanzo la natura della Tartaruga resta misteriosa. Solo leggendo i romanzi della Dark Tower si scopre che si tratta da Maturin, uno dei dodici esseri posti a guardia dei vettori che reggono la Torre e con lei l’ordine nel multiverso kinghiano. Quelli che il Re Cremisi vuole abbattere per affermare il caos.

Per seguire la la mappa del multiverso kinghiano bastano un paio di click in rete. I kinghiani si sono scatenati: i siti proliferano, forniti di illustrazioni, citazioni minuziosamente ricercate, rinvii alle distinte opere che, sommate, tracciano il quadro di un mondo chiaramente in progress, non ancora del tutto definito. Senza entrare nel dettaglio, si può dire che l’universo kinghiano è formato da diverse dimensioni parallele, in una delle quali campeggia la Torre Nera, che le tiene tutte insieme e impedisce che scivolino nel caos. Esistono varchi che permettono di passare da una dimensione all’altra ma nello spazio vuoto che li separa, il Todash, abitato da esseri inimmaginabili, mostruosità fameliche chiaramente ispirate alle mitologie oscure di Lovecraft.

Sono apparsi, oltre che nel ciclo Dark Tower, in alcuni dei racconti più famosi, come N. o The Mist da cui è stato tratto nel 2007 uno dei migliori film ricavati dal settantenne del Maine e che è tornato proprio quest’estate sugli schermi tv Usa con una serie di 10 episodi alla prima stagione. Con gli abitanti del Todash King ha potuto lanciare a briglia sciolta la sua immaginazione., senza però mai sfiorare, su questo versante, la potenza evocativa del maestro di Providence. Nella creazione dei mostri, proprio, come nello sviluppo delle trame e nelle scene più conturbanti, King dà il meglio di sé quando si tratta di calare l’orrore sovrannaturale in quello già denso della middle class americana. Come Pennywise, i suoi mostri sono tanto più perturbanti in quanto sanno rivelare ed evidenziare il lato oscuro della vita quotidiana, con uno slittamento di percezione e senso che dimostra come il vero Todash sia appena fuori dalla porta di casa, e spesso anche all’interno.

È eloquente che quando Roland Deschains, il cavaliere-pistolero protagonista della Dark Tower si trova, alla fine, «in the court of the Crimson King», di fronte al più potente tra i demoni creati da re Stefano, il Re Cremisi, scopre che si tratta di un vecchietto fragile e ormai quasi privo di poteri. Come lui stesso ha raccontato in diverse interviste, il modello delle incarnazioni del male su cui King si è basato sono gli assassini della porta accanto, come il Charlie Starweather a cui Terence Malick ha dedicato il capolavoro Badlands e Bruce Springsteen Nebraska.

Quello che terrorizza in gente simile, spiegava lo scrittore, «è la loro stupidità associata a quegli attimi di follia in cui qualcosa li possiede, il diavolo o Satana o qualunque cosa sia. Poi sparisce e ti ritrovi di fronte qualcuno che dice ’Non so cosa ho fatto, non lo so, Non so perché l’ho fatto’ ». Nulla è più mostruoso e spaventoso di quella normalità apparente improvvisamente animata dalla distruttività e dalla malvagità. Per questo, anche quando ha messo in scena l’essenza stessa del Male, It, King gli ha regalato la maschera «normale» di un pagliaccio.