Se ne è andato a 71 anni Lou Reed, in seguito a complicazioni insorte dopo il trapianto di fegato dello scorso maggio; negli ultimi mesi si era ripreso e fino all’ultimo secondo faceva esercizi di Tai Chi. Cercava di resistere, come ha raccontato Charles Miller, il suo medico. La notizia della morte ha fatto il giro del mondo in un istante, domenica scorsa. La rete si è infittita di tweet di omaggio, dolore, ricordo. Tutti hanno twittato: da Iggy Pop a John Cale, da Mia Farrow a Irvine Welsh. Evidentemente un pezzo di Lou Reed è asperso nel cuore di molti.

Un po’ come quella frase apocrifa che da sempre si portava appresso: The Velvet Underground & Nico, il primo disco della band del ’67, ha venduto solo 30mila copie in due anni, ma chi lo ha acquistato ha formato una band. In realtà nei primi due anni quel disco aveva venduto quasi sessantamila copie e la frase forse l’aveva detta Brian Eno. Si dice, chissà. Resta il dato di una band che, sospinta dalla banana in copertina di Warhol e da quella iconografia così decadente, oscura, insana avrebbe cambiato la storia del rock. Nel ’67 i Velvet Underground di Lou Reed, John Cale, Maureen Tucker, Sterling Morrison e Nico esordiscono a New York contrapponendosi radicalmente a quanto stava avvenendo in California. Furono il primo gruppo della storia a formalizzare un’estetica del perdente, del loser divo; perché divistico era stato l’atteggiamento di Andy Warhol, il loro maestro, nei confronti dell’arte. I Velvet Underground trasformarono in arte il quotidiano più urbano e noir (un mendicante, uno stupro, una dose di eroina, un bacio, un amore trans/gay/etero) cogliendolo nell’attimo del suo massimo disfacimento/realizzazione, ripetendolo all’infinito in canzoni rette da una costante serialità. Proprio come Warhol aveva reso arte Marilyn, Presley o un’auto accartocciata. Grazie ai testi di Lou Reed furono anche il primo gruppo a cantare la morte (rivestendola di un alone di culto), avendone una consapevolezza tremenda, tragica.

Forse per questo Lou Reed ha resistito fino all’ultimo istante, restio a cedere l’ultima mano a chi voleva riprendersi tutto: ispirazione e arte. Lo intervistai nel 1989 in occasione dell’uscita di New York, il suo quindicesimo album, tra i più riusciti e poeticamente sentiti. Era il suo omaggio a New York, città inscindibile dalla vita e dall’arte di Lou Reed. La città dei ricchissimi e dei poverissimi, niente o ben poco in mezzo. La città che divora i suoi artisti e dove fare un disco è già di per sé un atto di ottimismo.
Raccontava: «È difficile formare una band a New York, ecco perché ammiro molto chi ci prova. Per i musicisti è difficile sopravvivere, restare vivi». Seguì una domanda su quanto si sentisse importante, se avesse consapevolezza di quanti rocker avesse ispirato. Si schermì: «Non è questo il punto; per me la cosa importante è che esista ancora una scena underground, che ci siano i gruppi. Soprattutto qui a New York, città che non è mai stata gentile con nessuno che abbia voluto fare qualcosa». New York era la sua ossessione. Così come la chitarra, che metteva ovunque, che amava, di cui apprezzava sentire anche solo il suono. I chitarristi erano la sua passione, tra questi ci metteva Keith Richards, Carl Perkins, James Burton, BB King, Stevie Ray Vaughan. Al punto che ogni volta che scriveva un testo aveva subito bisogno di accompagnarsi con una chitarra. Quello era il test, il punto di passaggio, l’eventuale trasposizione su disco. Lou Reed si concedeva poco ai media, detestava i tour e preferiva lo studio di registrazione. Erano i pezzi a parlare. Tanto che se si fossero messe una dietro l’altra le sue canzoni, raccontava nell’intervista, «verrebbe fuori un libro molto grande, la storia di come è stato crescere a New York, dagli anni Sessanta in poi». Era quella un’idea a cui Lou Reed teneva molto; per lui il primo ascolto di un disco era fondamentale. «In quel momento – raccontava – sei ancora vergine, è lì che devi farti assorbire completamente». Non solo: chiedeva sempre un ascolto completo, dedicato. Perché spesso i pezzi dei suoi dischi erano consequenziali, piccoli capitoli di un unico testo, con tecniche narrative che lo hanno accompagnato da sempre, dalla prima persona a quella terza persona con cui ha infittito le storie dei Velvet: Candy Says, Lisa Says ecc. Cercava di rimuovere la sua presenza dai testi ma tecnicamente era sempre lui a dirigere il traffico.

Per questo I’m Waiting for the Man (Velvet Underground) sembrava/era la storia di Lou in attesa della dose di eroina; per questo in Underneath the Bottle, il pezzo su The Blue Mask, l’album del 1982 raccontava l’alcolismo del protagonista, cioè il suo. Per questo la storia del protagonista di Kill Your Sons su Sally Can’t Dance era anche la sua: un ragazzo che i genitori sottopongono a elettroshock per «curarlo» dalla bisessualità. La sua carriera solista è stata un tuffo costante nei mari più agitati del rock; dal suono inutile, finto moderno di Mistrial alla ruvidezza di Street Hassle, vera gemma degli anni Settanta, molto simile a New York nell’approccio sonoro. E poi Transformer (1972), Berlin (1973), Sally Can’t Dance (1974), Coney Island Baby (1975), Rock and Roll Heart (1976), passando anche per Metal Machine Music, il doppio album solo feedback e rumore che tutti noi riportammo al negozio perché convinti che non funzionasse.

Senza Lou Reed non ci sarebbe stato David Bowie che gli produrrà Transformer, non ci sarebbero stati gli U2 che per ammissione di Bono hanno costruito la propria carriera scopiazzando Lou Reed e i Velvet. Non ci sarebbero stati dai Joy Division ai Sonic Youth, passando per Nick Cave, Morrissey e buona parte del punk.

Chi scrive era ieri al concerto dei Pil. Lydon non ha fatto alcuna menzione della morte di Reed. Si sa che non lo sopportava non tanto per la musica quanto per l’influenza nefasta – secondo Rotten – avuta su Sid Vicious che aveva mitizzato agli eccessi la tossicodipendenza raccontata nei pezzi da Reed. Ma tant’è, il resto delle band punk non avevano resistito al fascino dell’artista: Buzzcocks, Generation X, Eater e cento altri. Citando a caso vengono in mente anche Nirvana, Rem, Elvis Costello, Jonathan Richman, Hole, Patti Smith, Talking Heads, Spacemen 3, Feelies, Galaxie 500 fino a Beck che per il suo fan club ha ri-registrato l’intero Velvet Underground & Nico. Negli ultimi vent’anni la vita di Reed si è incrociata con quella di Laurie Anderons, una relazione sentimentale e una collaborazione artistica, che è continuata fino alla fine. Si erano conosciuti al Festival delle Arti di Monaco dove, su invito dello stesso Reed, cantò A Dream da Songs For Drella. «Sono rimasto stupefatto quando l’ha cantata esattamente come avrei fatto io dal punto di vista ritmico, con gli intervalli giusti», racconterà Reed.

È solo un esercizio ozioso menzionare chi è rimasto immune da Lou Reed, basti solo pensare che in I’ve Been Tired, un pezzo su Come On Pilgrim, il debutto dei Pixies, Black Francis canta: I wanna be a singer like Lou Reed. Cresciuto con in testa il free jazz di Cecil Taylor e Ornette Coleman, due sue influenze fondamentali ben trasposte nelle spigolosità dei Velvet Underground ma anche con l’approccio melodico del doowop (le canzoncine scritte a inizio carriera per mantenersi), Reed è diventato negli anni l’apostolo noir del rock, tanto che per sua ammissione: my god is rock’n’roll. Lo stesso god/dio che in Rock&Roll (da Loaded dei Velvet Underground) cambia la vita di Jenny: «Sai una cosa, la sua vita è stata salvata dal rock’n’roll». Grazie a Reed le Jenny sono diventate milioni.