C’è qualcosa che fa radicalmente la differenza tra il festival di Cannes e la Mostra di Venezia: qui la quasi totalità dei film che vengono presentati escono nelle sale francesi, alcuni subito, altri in autunno, poco importa. Conta invece che il pubblico potrà vedere ciò di cui si parla per quindici giorni e senza interruzione. Da noi invece la maggior parte dei titoli sul Lido rimangono black out, e persino quando vincono il Leone d’oro sono oggetti alieni forse scaricabili in rete o visibili a quei cinefili glob trotter che passeranno poi a altri festival.

La relazione «reale» tra mercato festivaliero e circuito delle sale cambia anche il rapporto con la critica (e la sua funzione), che qui continua anche se sempre con meno spazio a avere un ruolo di orientamento importante. Il pubblico può infatti verificare, vedere coi propri occhi se condivide consigli, punti di vista, interpretazioni, cosa che da noi accade solo con un minimo numero di film (sullo stato della critica in Italia, e specie sulla stampa quotidiana, ci sarebbe poi molto da dire e questa non è la sede). Certo che la Francia sta cambiando, o è già cambiata, i film più indipendenti hanno meno spazio, meno sale, Parigi, la capitale, non è il resto del paese dove oggettivamente in sala c’è molto meno e però anche dove rassegne iper radicali e programmazioni di tendenza funzionano col pubblico, come dimostra un festival quale il Fid, il Festival del documentario di Marsiglia (da noi ce lo sogniamo…).

Era ora perciò che Cannes (nel Certain Regard) si accorgesse di un cineasta come Lav Diaz, che negli ultimi anni è uno dei nomi «obbligati» nei festival «tendenziosi» come quello di Rotterdam, ma è stato spesso nella selezione degli Orizzonti veneziani di Marco Mueller, e soprattutto è tra quei cineasti che praticano un cinema di ricerca, di spaesamento, radicalmente politico a partire dal lavoro sul mezzo cinematografico di cui mette alla prova tecniche, visualità, costruzioni narrative.

Diaz vive e gira nelle Filippine, della nuova generazione del cinema filippino è un po’ il punto di riferimento, e più degli altri, soprattutto in questo film si avvicina alla sensibilità tagliente di Lino Brocka (di cui Cannes Classics ha mostrato la versione restaurata di Manila), il padre teorico del nuovo cinema filippino cresciuto divorando clandestinamente i suoi film lasciati deperire per anni dai governi dittatoriali del paese. Brocka era un cineasta scomodo e sulla sua morte in un incidente stradale non è mai stata fatta piena chiarezza. Anche [do action=”citazione”]Diaz è scomodo, non viene supportato dalle istituzioni filippine, gira in modo indipendente, antagonista nelle sue storie ma soprattutto in una modalità del fare cinema indocile, rischiosa, sempre meno accettata.[/do]

Norte, è il nord delle Filippine, dove la popolazione islamica è mescolata a ex cattolici sempre più attratti dalle sette dell’evangelismo, dove c’è stata a lungo la guerriglia marxista e poi il terrorismo islamista. E se negli altri suoi film il tempo prolungato del racconto cercava nei dettagli la storia delle Filippine, le sue origini, i suoi paradossi, qui Diaz vira al racconto epico, potente e quasi fondatore; come nelle narrazioni omeriche i destini di tre personaggi attraversano i conflitti della storia dell’umanità, dunque del nostro contemporaneo.

Fabien è uno studente di legge che ha lasciato la facoltà perché «la verità è morta e il senso pure» e solo l’istinto può essere una una risposta. Nemmeno i suoi amici credono più a nulla nel paese che annichilisce i giovani a trent’anni, e nel mondo delle rivoluzioni fallite, dei tradimenti, della sinistra che si divora (appunto) e dei leader ammazzati perché così vuole il capitale pre e post-colonialista, Adam Smith ha vinto, lo schernisce un’amica, e perciò come mettere insieme postanarchia e postverità? Per Fabien c’è un solo modo, eliminare tutto ciò che è male ma il giustizialismo solitario (grillino) non può essere una rivoluzione. Difatti ammazza l’orrenda usuraia cicciona che lo vampirizza insieme a tutte le famiglie povere del quartiere, e però a finire in galera è un altro innocente, che lascia la moglie poverissima, già azzerata dall’usuraia, i due figlietti e la sorella nella miseria più devastante. Fabien intanto cerca una soluzione ai propri sensi di colpa in una setta, che seduce anche la povera donna sola, mentre il marito, persona buonissima e amato da tutti, in galera sviluppa doti quasi soprannaturali.

Il fondamentalismo come antirivoluzione nel tempo delle utopie cancellate dalla globalizzazione di ricchezze e miserie altrettanto spaventose, economiche e del pensiero, di cui i paesi «ex»colonizzati sono stati utilissimo terreno di allenamento. Dove meglio infatti sperimentare l’azzeramento dei diritti e delle conquiste collettive aizzando così anche una risposta ferocemente antipolitica? Le sette e i movimenti accoglienti, carezzevoli e manipolatori dei fondamentalismi come risposta all’ingiustizia garantendo però il controllo dello status, conducono progressivamente all’apocalisse, la profezia dei Maya che è catastrofe dell’umano nel sua essenza politica, e nella capacità di una lotta collettiva. Norte ha come sottotitolo «La fine della Storia» e questo non vuol dire che Diaz manifesti una qualsiasi nostalgia per un’idea lineare e progressiva della storia. Al contrario, la Storia si arresta in questa ipocrisia di un costante movimento in avanti, nella fine della politica e dell’utopia. E negli immaginari che di questo giustizialismo (ne abbiamo visti esempi a Cannes) sono strumento e celebrazione. Il suo cinema invece respinge ogni fondamentalismo dell’assoluto, della macchina che sovrasta e offre ogni risposta. Si esce col dubbio e coi sensi capovolti. La rivoluzione comincia anche da qui.