I capelli possono essere rasati ai lati, oppure innalzarsi vaporosi. L’abito è di rigore nero, le scarpe a punta. Su volti resi cerei dal trucco si staglia il nero di pesanti linee di eyeliner e il rosso vivo, sanguineo, di un lipstick applicato con mano pesante. Per i ragazzi come per le ragazze. Qui e là compare qualche croce. Li si inizia a scorgere in alcuni punti di Milano, dietro Corso Vittorio Emanuele, al metro Duomo e lungo via Torino, sulla direttrice che dal centro conduce al Ticinese. Cominciano a essere riconosciuti con un nome, vengono chiamati dark. Siamo negli anni Ottanta, in una Milano che celebra una presunta vitalità ritrovata dopo il grigio degli «anni di piombo» affidandosi allo slogan di un noto amaro. Mala patina della Milano da bere avvolge una realtà più complessa. La deindustrializzazione avanza, dissolvendo le forme di vita che intorno a essa si erano strutturate, mentre le dinamiche della valorizzazione immobiliare promuovono una massiccia espulsione di popolazione dal centro urbano.

Oltre la sconfitta

Il combinato disposto di repressione ed eroina, poi, ha annientato le forme di militanza e le strutture che avevano fatto di Milano, a partire dagli anni Sessanta, un laboratorio di radicalismo politico e esistenziale. Restano solo luoghi più o meno vuoti, conquiste di un ciclo di lotte precedenti, in attesa di qualcuno che li sappia rianimare. Ogni continuità è rotta. E allora la dissidenza si affiderà al linguaggio della controcultura. Seminale, in proposito, si rivelerà l’esperienza del Virus. Intorno alla musica e all’immaginario di rottura proveniente dal punk si consolida un gruppo composto da giovani decisi a opporsi alla miseria del presente e da altri che, avendo vissuto liminarmente i fermenti del movimento degli anni Settanta, non sono disposti a ripiegarsi sul privato ma, allo stesso tempo, non ne vogliono sapere della residualità di quanto è rimasto della precedente ondata. Ed è proprio in seno ad alcune componenti del Virus che inizia a maturare una sensibilità dark oriented. A incidere sono questioni di gusto musicale. La rivendicata elementarità del punk suona limitata, e ripetitiva, per chi, invece, rimane folgorato dalla proposta musicale di dischi come Second Edition dei Public Image o Unknown Pleasure dei Joy Division oppure dei nascenti orientamenti industrial. Ma c’è dell’altro.

Se nell’ambiente punx, così si autodefinisce il punk italico più politicamente impegnato, si manifesta un rifiuto nei confronti di tutto ciò che non è autoprodotto e la tendenza a un’autorappresentazione «antintellettualistica», in altri l’esigenza di radicalità non esclude il confronto con istanze culturali e artistiche provenienti da ambienti differenti. Si flirta con il nero e con un immaginario apocalittico ma si raccolgono suggestioni esistenzialistiche, istanze antipsichiatriche, spunti legati alle avanguardie storiche. Nelle parole di Joykix, uno dei protagonisti di quella scena, «mentre il punk urlava fuori, il dark urlava dentro». Si definiscono così percorsi che, passando per fanzine come «Amen» e «Hydra mentale» o la «rivitalizzazione» generazionale del Leoncavallo tramite l’esperienza dell’Helter Skelter, sfociano, superando le strettoie dell’annus horribilis dell’underground milanese, il 1987, sugli anni Novanta.

Battaglie di strada

Nel frattempo il darksi era affermato a livello globale come dimensione sottoculturale, a partire dall’impatto, musicale e iconico, di gruppi quali Cure e Bauhaus. Nel chiuso della loro cameretta, in qualche punto del desolato hinterland, adolescenti poco in sintonia con lo spirito del tempo modellano il loro look su quello di Robert Smith e Peter Murphy. Si scontrano con i genitori e affrontano il dileggio dei compagni di classe o dei professori. Il sabato pomeriggio intraprendono viaggi iniziatici a Milano dove, magari girando per via Torino o la Fiera di Sinigaglia incontrano creature simili, che riconoscono e da cui sono riconosciuti. Ma c’è anche il pericolo di imbattersi nei paninari, sottocultura iperrealista sviluppatasi in quegli anni, o negli skin. E allora sono botte. Si crea così un’altra scena dark, non direttamente politica e più ortodossa rispetto al mainstream internazionale della subcultura, scandita dalle serate e, soprattutto, dalle domeniche pomeriggio all’Hysterika, discoteca nei pressi di Porta Venezia.

Le vicende sommariamente presentate sono ricostruite in dettaglio e analizzate nel libro Strane creature. Il dark a Milano negli anni Ottanta (Agenzia X, pp. 320, euro 16) scritto da Simone Tosoni e Emanuela Zuccalà, due insider di quella scena che, nel frattempo, hanno fatto molto altro, il primo come sociologo la seconda come giornalista, senza mai tradire la fedeltà al look total black. Diversamente dal punk, oggetto di una notevole storicizzazione, il dark, nonostante l’impatto che la sua estetica continua ad avere, è rimasto nel corso del tempo un universo sottoculturale relativamente inesplorato. Il volume di Tosoni e Zuccalà interviene quindi a colmare una lacuna, e lo fa recuperando le voci e le testimonianze di molti protagonisti di quella scena, appartenenti a differenti «generazioni», intrecciando la ricostruzione storica dei differenti percorsi con approfondimenti tematici relativi agli orientamenti musicali e letterari, le sensibilità politiche, le dinamiche di socializzazione e conflitto, la sessualità, l’uso delle droghe, i consumi, le geografie urbane di elezione.

Pur sottolineando le differenze, culturali ed esistenziali, fra i due principali filoni del dark milanese, uno più politico l’altro più «estetico», la ricerca di Tosoni e Zuccalà evidenzia anche la reciproca permeabilità fra le due tendenze, con una circolazione di figure dall’uno all’altro contesto alla ricerca della collocazione più congeniale. Del resto, anche il filone più distante dall’assunzione di una militanza esplicita manifesta una consapevole politicità, nei termini che Dick Hebdige definiva della «rivolta dello stile». In tal senso, ai codici sottoculturali, ostentati nello spazio pubblico, è affidata la funzione di scioccare, di creare sconcerto nell’ambiente circostante, di esprimere estraneità verso i valori dominanti. Da qui il disprezzo nei confronti dei fashion dark, o dei dark della domenica, che si indirizza verso coloro che solo in certe occasioni sfoggiano un look estremo, in contesti separati rispetto a quelli della loro quotidianità. Evidente, in proposito è la distanza rispetto all’itinerario che le tendenze dark intraprenderanno a partire degli anni Novanta, ibridandosi con una componente fetish, tendenzialmente assente nel decennio precedente, e rinchiudendosi nello spazio separato dei club. Inoltre, sempre in termini politici, non si deve dimenticare come il dark sia stata la prima sottocultura programmaticamente «ospitale» nei confronti dell’omosessualità.

Cesure radicali

Molti sono gli elementi di interesse che emergono da Creature simili. La vicenda del dark fornisce numerosi spunti per rendere più articolata la percezione di un decennio, gli anni Ottanta, spesso schiacciato su alcuni facili stereotipi. Per certi versi, da quel decennio non si è mai usciti. Per altri aspetti, invece, da esso ci separa una cesura assolutamente radicale, di cui il libro di Tosoni e Zuccalà ci permette di cogliere la portata per quanto riguarda i cambiamenti intervenuti nello spazio pubblico, nella fruizione della città, nei processi di socializzazione dei giovani. Ai due autori, poi, si deve riconoscere il merito di avere prodotto e approcciato materiali e le interviste su solide basi sociologiche, ma senza farlo intendere, senza troppo esplicitarlo, lasciando intatto il gusto di una lettura piacevole e incalzante a chi è disposto a lasciarsi coinvolgere dall’intreccio fra decine di romanzi di formazione che alimenta la loro narrazione delle vicende del dark a Milano.