Lì dove gli alisei soffiano portando con sé il profumo dell’oceano si staglia Lanzarote. È la meno turistica delle isole Canarie, premiata dall’UNESCO per la tutela dell’ambiente (è anche Riserva della Biosfera), paradiso dei surfisti ed isola felice per intellettuali e amanti della natura. La candida casa-biblioteca di José Saramago è nella cittadina di Tias, mentre Stanley Kubrick nel ’68 girò alcune scene di 2001: Odissea nello spazio nel Parco Nazionale di Timanfaya, dove il vulcano è ancora attivo. Quanto A. J. Cronin vi ambientò Gran Canaria facendo riscoprire la joie de vivre al suo protagonista. Nomi eccelsi che hanno goduto della generosità del luogo, a cui solo l’artista César Manrique ha saputo restituire l’amore incondizionato.

Manrique, che era nato ad Arrecife (Lanzarote) nel 1919 e per un tragico incidente morì nel 1992 (quando aveva da poco inaugurato la Fondazione che porta il suo nome), dopo aver studiato a Madrid e vissuto a New York, era tornato a Lanzarote nel 1966 dando vita ad una serie di opere pittoriche-scultoree-architettoniche-paesaggistiche e anche teoriche (Lanzarote: Arquitectura inedita, 1974). Porta la sua firma anche il Jardín de Cactus che si è aggiudicato il Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino 2017. Un appuntamento ambizioso che nel tempo (siamo alla XXVIII edizione) ha mantenuto inalterate le sue qualità di serietà e creatività condivise con la Fondazione Benetton Studi e Ricerche di Treviso che proprio nell’ambito della sua attività scientifica ha istituito questo «premio ad un luogo». Ad idearlo, nel 1990, l’architetto Domenico Luciani (membro onorario del Comitato Scientifico della Fondazione) grande amico di Luciano Benetton con Tobia Scarpa, anche lui architetto e figlio di Carlo Scarpa a cui è dedicato il premio. Si tratta di un riconoscimento internazionale che nel prendersi cura del luogo in questione (unica eccezione l’attribuzione del premio al filosofo Rosario Assunto per le sue riflessioni/battaglie sull’estetica del paesaggio) prevede incontri, seminari, la mostra fotografica a Palazzo Bomben (sede della Fondazione che contempla auditorio, giardino con ponte di collegamento di pubblica fruibilità, nonché la biblioteca specializzata sul paesaggio storia locale e storia e civiltà del gioco con un archivio con oltre 58mila immagini) e la pubblicazione annuale di un volume di approfondimento.

«Il focus è il paesaggio, – spiega Patrizia Boschiero, coordinatrice delle attività del Premio Carlo Scarpa e autrice con Luigi Latini e Juan Manuel Palerm Salazar del libro Lanzarote, Jardín de Cactus. Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino 2017, XVIII edizione – ma per parlare del paesaggio in un certo modo ci vuole lo storico dell’arte, chi si occupa di estetica, il botanico, l’agronomo, l’architetto, l’architetto paesaggista, lo storico dei giardini… insieme, naturalmente, al geografo. Si parte con un progetto di ricerca, dopo che il comitato scientifico ha localizzato un’area geografica e geopolitica che è diversa ogni anno, perché si vuole dare anche un segno di varietà. In quell’area si vanno a cercare temi da porre all’attenzione pubblica intorno al paesaggio e alla cura dei luoghi. Il premio è stato intitolato a Carlo Scarpa non tanto come architetto, quanto fondatore di giardini come quello della Fondazione Querini Stampalia a Venezia, del Museo Castelvecchio a Verona e anche della bellissima Tomba Brion nella frazione d’Altivole in provincia di Treviso. Negli anni il giardino si è trasformato ed è diventato un giardino-parco, anche un giardino-luogo di agricoltura, un giardino metaforico. Siamo andati in Islanda, Benin, Sicilia, in Kazakistan, al confine con la Cina. Per certi versi mi viene da paragonare il percorso di evoluzione che ha fatto la Fondazione intorno al tema del giardino alle riflessioni e ai ragionamenti portati avanti negli anni da Gilles Clément che parla di ’giardino planetario’ e di terzo paesaggio».

«Quest’anno siamo andati a Lanzarote ed è stato scelto il Jardín de Cactus anche come luogo simbolico di tutto il paesaggio dell’isola con le sue caratteristiche morfologiche.», continua il direttore della Fondazione Marco Tamaro attraversando le sale con le fotografie scattate da Andrea Rizza Goldstein nel dicembre 2016 e fermandosi davanti alle immagini del film documentario diretto da Ziyah Gafic che inquadrano i vari progetti di interventi sul territorio condotti da César Manrique, tra cui i Jameos de Agua (1966-68), il Monumento al Campesino (1968), il ristorante El Diablo (1970), il Mirador del Rio (1973), il Museo Internazionale di Arte Contemporanea MIAC (1976) e il Jardín de Cactus (1990).

Vulcanica come l’isola che gli ha dato i natali, la figura di Manrique non può che essere fortemente radicata al luogo. Del resto fu proprio lui a scrivere: «Cerco di essere la mano libera che dà forma alla geologia». «Manrique non era un paesaggista, ma un artista che si è inventato un modo di trasformare i luoghi introducendo elementi di una modernità assoluta per gli anni Sessanta. – continua il direttore – Pensava alla bellezza dei luoghi, limitandone la fruizione turistica per salvaguardarli. Quelle regole che lui si è posto fin dall’inizio sono state assunte, diventando leggi.»

Nel Jardìn de Cactus a Guatiza, sulla Carretera General del Norte, in un’area tradizionalmente legata alla coltivazione della cocciniglia l’artista aveva piantato un numero immenso di cactacee e succulente (oggi le piante coltivate sono circa 4000 di 92 generi diversi e 696 specie differenti), souvenir di numerosi viaggi all’estero. «Le pareti di pietra dei gradoni si adattano alle irregolarità del terreno creando una sorta di perpetuum mobile che si struttura secondo un rigoroso progetto geometrico.» – scrive Fernando Castro Borrego, accademico dell’Universidad de la Laguna di Santa Cruz de Tenerife, nel suo saggio – «Questo muro ondulante non aspira a creare un’illusione estetica naturalistica. L’organicità non esclude un contenuto di verità immanente che offre allo spettatore una spiegazione plausibile circa le tecniche costruttive utilizzate dai contadini delle Canarie per adattare l’aspra orografia delle isole ai lavori agricoli. La tecnologia agricola dei costruttori delle pareti costituisce un fenomeno antropico e culturale che l’artista interpreta ed espone in uno spazio che funge da anfiteatro della natura, con le sue gradinate e i suoi palcoscenici. Ma non tutto è finzione nell’immagine architettonica di questo singolare teatro-giardino. Per César Manrique l’arte era al contempo un gioco e una cosa seria, ed è per questo che nell’opera si combinano la dimensione ludica e quella cognitiva.»