Se intendo bene l’invito, per prima cosa va identificata l’opera che rappresenti lo storico dell’arte. Sto al gioco, cercando fra le tante opere del cuore. I petali della margherita, in questi esercizi un po’ futili, possono sfumare in motivazioni autobiografiche: meglio rivolgersi alle più remote.
A Pisa, il museo di San Matteo era a pochi passi da casa. In più, la domenica non si pagava (non è l’unica, ma il biglietto resta una barriera sociale). Il San Lussorio (o San Rossore) di Donatello divenne così particolarmente caro ad un ragazzino delle elementari e delle medie che non si sarebbe sognato di andare a leggere in biblioteca Jenö Lányi, lo storico dell’arte di cui intendo parlare. Divenne familiare e segreto al modo dei luoghi che a quell’età si frequentano in solitudine. Era facile associarlo, in un’altra sala del museo, al San Paolo di Masaccio. Oltretutto, risalgono allo stesso giro di tempo, quei due capolavori che oggi non è facile vedere vicini: o l’uno o l’altro, a volte in compagnia delle tavole di Gentile da Fabriano e dell’Angelico, sono sempre in missione per conto del Dio delle mostre. Forse nacquero a distanza di mesi, più che di anni: i tempi non vanno circoscritti troppo nel caso di una scultura in bronzo, che dopo essere stata fusa e prima di essere dorata, veniva rilavorata a fondo.
Il più anziano dei custodi, invalido di guerra, sapeva dirmi che la tavola di Masaccio era quanto restava del polittico un tempo al Carmine. Invece, l’indicazione che Donatello provenisse dai Cavalieri lasciava un po’ interdetti: piena di bandiere prese ai turchi, la chiesa evocava un altro mondo. E difatti il reliquario era lì dalla fine Cinquecento, veniva da Firenze, da Ognissanti, dove la relativa reliquia giunse nel 1422. Nel 1427 Donatello, esposto a sua volta con il fonditore, Giovanni di Jacopo, attendeva parte del saldo.
Ben più recente l’approdo al museo: risaliva a questo dopoguerra, nella nuova sede sul Lungarno. E siccome si torna oggi a parlare, come ai tempi di Ugo Ojetti, di restituzioni che i musei dovrebbero fare alle chiese, sia consentita una minima divagazione. Qualche anno dopo quei lontanissimi ricordi, il San Lussorio fu riportato ai Cavalieri. Nell’impossibilità di farlo dialogare con gli altri arredi, lo si nascose dietro l’altar maggiore, dentro lo spettacolare e stolido tamburo in vetro che vi fu incassato. L’alloggiamento più improprio: a riprova che le restituzioni rischiano di riguardare solo il domicilio e non risarciscono quasi mai il contesto storico e visivo, troppo mutato nel frattempo. La museificazione è un processo irreversibile, se non la cancellano intenti di reazione politica. Tornando al demuseificato San Lussorio, lì fu rubato, e dopo il recupero rientrò in museo.
L’opera è in grado di rappresentare in pieno l’intera stagione del primo Rinascimento fiorentino: vero crocevia della nostra memoria culturale. Ecco allora il motivo della sua scelta per questo brevissimo ricordo di Jenö Lányi: nato nel 1902 in territorio allora ungherese, scomparso in mare dopo l’affondamento della nave che lo stava portando in Canada, nel 1940. Per ragioni di anagrafe non posso conoscere quale effetto avesse il San Lussorio sull’altare barocco, prima di guerra. Sarà stato ben diverso da quello in museo. Solo tarando il mutato stato di percezione (pensiamoci a tali mutazioni, quando nei nostri libri e cataloghi vediamo scorrere in fila le opinioni su un’opera d’arte), ci si potrà dare ragione del fatto che proprio un’opera pagata a Donatello non avesse goduto di particolari apprezzamenti prima del 1939 e di Lányi, in un’età più indulgente a riguardo dell’autografia donatelliana.
Ed allora, come spiegare lo scarto fra una qualità oggi pacificamente ritenuta suprema e lo scarso entusiasmo critico fra fine Otto e primo terzo del Novecento? Colpisce che lo si sospettasse perfino realizzato verso l’anno 1600 da un artigiano senza pretese. Colpisce soprattutto perché a sospettarlo, sia pure per un breve momento, fu Ulrich Middeldorf: più tardi mitico direttore del Germanico, caro alle vecchie leve dell’attuale disciplina, vero conoscitore non solo nel campo della scultura, in cui fu maestro. O che, quando già da tempo circolavano le pagine di Lányi, un critico del calibro di Giorgio Castelfranco trovasse il San Lussorio «forse un po’ appesantito nell’esecuzione troppo compiaciuta dei capelli e della barba, un po’ troppo marcato nella plastica realistica della guancia, troppo battuto nelle rughe della fronte». Come capacitarsi davanti a tali rotazioni astronomiche? Uno dei tanti misteri gaudiosi dell’oscillante storia del gusto insegnata da Francis Haskell. A far pensare ad una manipolazione tardiva non era soltanto l’aggiunta del gioiello che campeggiava allora sul busto. C’era quel collare metallico attorno al collo, che è fermato con perni troppo vistosi ed aveva richiesto di limare la barba del santo. Anche per Janson, autore del catalogo donatelliano nato sulle idee di Lányi, era un’aggiunta più tarda, mentre potrebbe anche trattarsi di un’idea (o di una necessità) emersa in corso d’opera.
La difficoltà ad intendere la qualità del San Lussorio nasceva forse dalla sua funzione. È un reliquario «parlante», del tipo che nella sua forma allude alla parte di corpo sacro contenuta; o quanto meno al tipo di martirio: la decapitazione. Non ha però l’aspetto un po’ distante e astrattamente prezioso dei reliquari medievali. È come un ritratto: un ritratto senza referente manifesto, ma profetico di un’umanità nuova (Lányi sapeva spendere bene l’accostamento alla cupola di Brunelleschi, che sarebbe stato rischiosissimo in bocca ad un formalista puro). Ossia, va già in direzione del vero busto ritrattistico della generazione successiva. Irving Lavin mostrerà poi come in tale tipologia – un’invenzione umanistica – convergessero l’erma romana e il reliquario cristiano. Il San Lussorio si trova ancora, attorno al 1425, in una sorta di limbo temporale: sembra un ritratto (e non può esserlo), invece è un reliquario (così presente, fisicamente, come non si era mai visto). L’apprezzamento dello stile non ne può prescindere, se non annaspando pericolosamente nel terreno della ‘qualità’.
L’analisi del San Lussorio fatta da Lányi rientrava nel più largo quadro dei Problemi della critica donatelliana (titolo dell’articolo su «Critica d’arte», tradotto dall’amico e condirettore Bianchi Bandinelli). L’accento batteva su quest’opera perché rifletteva la compromessa immagine filologica di Donatello. L’opera documentata era stata vista con impaccio, prima, solo perché si erano prese a metro di giudizio cose che di Donatello non potevano essere, come il cosiddetto figlio di Gattamelata, al Bargello. Lo strumento di analisi restava dunque quello di sempre: il paragone; ma Lányi si serviva in modo convinto, innovativo anche di uno meno antico, la fotografia. Era stato a fianco dell’operatore della ditta Brogi, Gino Malenotti, nella nuova campagna di riprese su Donatello. Di queste fotografie si sarebbe servito per la monografia che su di lui pensava di scrivere lontano dalle persecuzioni naziste; per fare confronti, erano un parametro meglio tarato e certe opere note e documentate si rivelavano come fossero inedite. Il saggio si chiudeva con la «Lista delle opere base di Donatello», quelle sicurissime. Ed era un Donatello assai diverso da quello conosciuto in precedenza.
Ma anche da quello dei nostri anni, che non ha più un’identità così compatta come pensava Lányi. Pur in mezzo alle forzature di merito o ai toni asseverativi di alcuni, il nostro Donatello ha ritrovato un raggio materiale e tipologico, in definitiva stilistico, che Lányi aveva coscientemente sacrificato ad un canone «soprattutto monumentale», come dichiarava convinto. E tuttavia, sarebbe maturata, questa nostra e diversa immagine del grandissimo artista, senza l’azzeramento fatto da Lányi?
La moglie Monika, figlia di Thomas Mann, che gli sopravvisse nella tragica agonia in mare, ne ricorderà il «fiuto matematico» assieme ad «una sistematicità fantastica e una fredda passionalità»: quanto emerge, appunto, dalle poche pubblicazioni di uno che, prima di passare con Pinder a Monaco, aveva studiato a Vienna, con Schlosser. C’è qualcosa di Robert Musil, in quel suo sguardo metodico, ma consapevole di rivolgersi ad una materia vitalmente fluida, per sua natura mai razionalizzabile.