«Parto mi muovo e scappo perché sono vivo / e tengo insieme le radici col viaggio e con l’arrivo / come Josephine Baker riflessa nei vetri di Murano danza / il mondo è un salone viaggiante / l’uomo è nella mescolanza»: ha una lingua particolare e ficcante, il cantautore Ennio Rega. Questa è una delle frasi meno complesse del disco che segnaliamo. E ha una voce dai tratti anche acidi e sardonici che ben supporta fiotti di parole che sembrano cavati fuori da un labor limae fatto con attrezzi dolorosi: il guardare dentro se stesso, evitando sia le ridondanti celebrazioni dell’ombelico che spesso hanno ucciso grandi dischi d’autore, sia l’autocommiserazione.

Ce n’è per tutti, anche per l’anziana professoressa comunista che insegnava greco e latino e che ancora «legge il manifesto / ancora insegue il sogno di una società diversa». Ma poco più avanti: «rivoluzionaria davvero / però in primavera si addolciva nelle vestaglie delle nonne / le compagne indossavano merletti sul fiorire delle gonne / e io vecchie giacche comprate a Bologna e Ercolano/ bastavano camicie senza collo a chi aveva una buona testa».

Antropologia della disillusione e di una mutazione profonda che ha lasciato un deserto arido a vorrebbe trovare ragioni per credere in un giardino fiorito. Se pensate che questo disco sia l’ennesimo facile schierarsi a parole, come potrebbe dirci la frase iniziale riportata, sbagliate di grosso. Ennio Rega precisa, altrove: «non è ragionevole aspettarsi un cambiamento se la gente per vincere e prevaricare / riduce drasticamente a merda / ciò che vuole vedere al contrario». Rega non è un cantautore che confeziona canzoni «carine» da fischiettare cogliendo qualche parola random. È un indignato che vorrebbe trovare il modo per smettere di avere motivi più che validi per indignarsi.