Negli ultimi anni, molti hanno conosciuto Amalia Signorelli soprattutto per le sue frequenti apparizioni televisive, come commentatrice in popolari talk show politici (Ballarò, Otto e mezzo e altri).
Si era costruita un’immagine efficace di opinionista colta e al di sopra delle parti, ma sempre pronta ad esercitare una critica razionale e inflessibile verso l’arroganza del potere. Aveva difeso la dignità delle donne contro Berlusconi, quella dei lavoratori contro Renzi, ma senza conceder nulla a quel tono di superiorità morale che rende spesso così indigeribili al grande pubblico gli intellettuali di sinistra. Lei si divertiva molto in queste esperienze di rapporto con il mondo dei media, tanto diverso da quello della ricerca e dell’insegnamento universitario.

RIUSCIVA, del resto, a portare in televisione senza banalizzarlo lo spirito critico che contraddistingue la sua disciplina di studi, l’antropologia culturale: la capacità di guardare cose che ci sono fin troppo familiari e scontate da lontano, e sotto una nuova luce. Proprio ciò che serve, spesso, per dare significato a un dibattito politico angusto e soffocante.
Nata nel 1934, Amalia Signorelli si era formata a Roma negli anni ’50 con Ernesto De Martino, le cui lezioni descrive come «una sorta di epifania che svelava possibilità allora ignote della vita della mente», e dalle quali deriva un’inclinazione, quasi una vocazione, che non è mai venuta meno nell’arco di un’esistenza. È la vocazione per l’antropologia e per la ricerca etnografica, che inizia con la tesi di laurea dedicata al paese lucano di San Cataldo, e si perfeziona con la partecipazione nel 1959 a una mitica spedizione etnografica: quella guidata dallo stesso De Martino nel Salento per documentare il complesso mitico-rituale del tarantismo, da cui scaturirà il classico per eccellenza dell’antropologia italiana, La terra del rimorso.

PER QUANTO FOLGORATA da De Martino, Signorelli non farà però parte negli anni successivi del suo entourage più stretto: un rapporto forte con questo autore riemerge semmai nell’ultima parte della sua carriera, quando cura la pubblicazione dei materiali della spedizione salentina (Etnografia del tarantismo pugliese, edizioni Argo, 2011) e dedica un intero volume alla ricostruzione del pensiero demartiniano (Ernesto De Martino: Teoria critica e metodologia della ricerca, L’Asino d’oro, 2015).

MA NEGLI ANNI ’60 le strade intraprese da Amalia Signorelli vanno in direzioni diverse: sia biograficamente (si sposa, va a vivere a Cosenza e ha tre figli, abbandonando quindi momentaneamente la frequentazione degli ambienti accademici), sia scientificamente. Si accosta, infatti, a interessi e tematiche per certi versi opposte a quelle di De Martino: non le culture popolari tradizionali e magiche del Sud, ma i processi di trasformazione sociale e le forme della politica e della cultura di massa nell’Italia contemporanea. Già nel 1958 era stata – giovanissima – tra i firmatari di un Memorandum (con Tentori e Seppilli, fra gli altri) che rivendicava il ruolo centrale dell’antropologia culturale per la comprensione del presente nella sua dimensione globale: invitando a occuparsi un po’ meno del folklore contadino e un po’ di più della decolonizzazione e dei conflitti sociali. Negli anni ’60 insegna fra l’altro a Roma, alla scuola per la formazione degli assistenti sociali (Cepas). Torna poi nell’università dall’inizio degli anni ’70: insegna prima ad Urbino, a Roma La Sapienza ma soprattutto – fino al pensionamento – alla Federico II di Napoli.

È IN QUESTO PERIODO che si colloca la sua produzione scientifica più matura. I temi di ricerca che segue più sistematicamente sono l’antropologia della città (pubblica fra l’altro Antropologia urbana, Guerini, 1996), quella delle migrazioni (Migrazioni e incontri etnografici, Sellerio, 2006), e l’analisi delle forme del potere e del clientelismo nel Mezzogiorno (Chi può e chi aspetta, Liguori, 1983).

VA ANCHE RICORDATO che Amalia Signorelli è stata la prima antropologa in Italia a occuparsi del tema della cultura di massa e dei modi in cui essa modifica la classica visione gramsciana del folklore come cultura delle classi subalterne. In fondo, la sua seconda carriera televisiva non è stata poi così casuale come lei stessa amava far credere.
Le metamorfosi mediali del potere e le trasformazioni antropologiche da esso indotte sono il filo rosso che per lei univa ricerca scientifica e divulgazione. Con la rara capacità, su entrambi i terreni, di parlare in modo chiaro e a tutti.