Esce in questi giorni la seconda ristampa del libro di Miguel Mellino Governare la crisi dei rifugiati. Sovranismo, neoliberalismo, razzismo e accoglienza in Europa (DeriveApprodi, pp.180, euro 18). È un’ottima notizia per tutti coloro che sentono la necessità di un ritorno riflessivo sulle proprie pratiche antirazziste nel momento in cui, proprio ora, le notizie dalla frontiera greco-turca ci ripropongono la questione della barbarie istituzionale del management europeo delle migrazioni. Le immagini spietate di Lesbo si vanno infatti ad aggiungere ai «punti nodali» di quella geografia di un’Europa postcoloniale che il volume si propone di percorrere per restituirla a un senso che vada oltre la narrazione emergenziale e la (pur condivisibile) ripetizione di reazioni di sdegno.

UNA GEOGRAFIA anche visiva che, materializzatasi in maniera sempre più evidente a partire della cosiddetta «crisi dei rifugiati» del 2015, l’autore segue come una traccia, un buco nel linguaggio della «civiltà» europea, lo spettro nel presente di una storia negata che non smette di strutturare e di produrre i suoi effetti. Calais, Lesbo, Macerata, Rosarno, il parco Maximilien a Bruxelles, per nominare solo alcuni di questi nodi. Ora, per l’appunto, ancora una volta Lesbo.

Sarebbe un errore, sostiene Mellino, considerare il governo della «crisi» come una deviazione, una smorfia eccezionale nel volto di un’Europa altrimenti plasmata dai diritti umani: la sua figura dell’umano è sin da subito sfigurata, deformata da quella frattura razziale che, come un medesimo che cambia, attraversa la storia del capitalismo.

FACENDO PROPRIO il metodo genealogico, il libro si propone di condurci al cuore della costituzione materiale dell’Ue, alle origini storico-politiche dell’attuale congiuntura e delle sue «pulsioni sovraniste», per dissotterrare i suoi «scheletri storici», le sue aporie e i suoi rovesci più inquietanti. Rileggendo Mbembe, l’autore ci invita infatti a scorgere come la biopolitica moderna si sia costituita nell’intreccio sotterraneo con una dimensione necropolitica di gestione del vivente. Guardandola da questa angolazione, la messa al lavoro della vita attraverso la produzione di laissez-faire, di flessibilità e di auto-imprenditorialità presso una parte della popolazione non è che una delle due facce di una stessa medaglia: dall’altra vi è la produzione di terrore, violenza e morte (fisica e/o sociale). Si tratta di un nocciolo di sragione ragionata, per parafrasare le parole di Gordon citate nel testo, le cui ragioni (materiali) sono però tutte da collocare all’interno dei meccanismi di valorizzazione dell’economia politica. E che evidentemente orienta nel profondo anche il «neo-ordo-liberalismo» europeo: più che una crisi dell’Europa ci troviamo allora alle prese con l’Europa nella crisi.

PER QUESTE RAGIONI, Mellino non può non confrontarsi con quella che definisce come una complementare crisi dell’antirazzismo europeo. Lo fa attraverso la teoria politica perché, riprendendo qui Althusser, «ogni problema teorico è un problema politico»: dalla problematica metafisica eurocentrica di Agamben all’apolitica economia morale di Fassin, passando per il tic riduzionista della tradizione marxista europea, spesso troppo preoccupata dal ricucire gli effetti divisivi della razza per prenderne sul serio gli effetti materiali ed esistenziali. Sono dei capitoli complessi ma che sbaglieremmo a considerare «semplici» gesti di erudizione: non è necessario infatti essere degli accademici o aver letto direttamente gli autori citati per beneficiare della loro critica, perché qui a essere problematizzato è, per così dire, l’inconscio politico che permea gran parte del mondo dell’attivismo in Europa. Non è una perorazione acritica per una politica delle identità che, soprattutto attraverso l’accademia, non finisce di rischiare di tradursi in mere «enunciazioni di principio», slegate dalle dinamiche materiali di lotta al capitalismo come modo di produzione, e di ridursi a operazioni di «pulizia linguistica» e di apertura retorica (vittimizzante) verso l’altro.

IL LIBRO ci dice un’altra cosa, e cioè che una volta rimesso il razzismo al centro dei processi di produzione, riproduzione e valorizzazione capitalistici, una volta considerato nei suoi effetti di realtà, non si può che andare al concreto dell’esperienza di subordinazione e resistenza di alcuni gruppi. E poco importano (qui, se possiamo, la cifra produttivamente anti-accademica del testo) inutili dispute sul primato ontologico tra classe/razza/genere, perché le lotte antirazziste di determinati gruppi razzializzati, i riot delle banlieue parigine del 2005 così come il movimento statunitense BlackLivesMatter (per fare solo qualche esempio) sono già di per sé lotte di classe. O meglio, sono il solo luogo dal quale ripartire per costruire una reale, decoloniale, trasversalità insorgente. Senza inutili proiezioni automatiche della propria causa sulle cause dell’altro, per riprendere il Rancière citato da Mellino.

Per quanto si presentino ciascuno come «l’Altro dell’altro», dunque, il «neo-ordo-liberalismo» di Maastricht/Schengen e il sovranismo apertamente xenofobo dei partiti d’estrema destra europea affonderebbero i loro piedi in un’unica storia e condividerebbero una matrice comune. L’uno si specchia nell’altro e, nelle loro pur esistenti differenze, non finiscono di alimentarsi a vicenda: nessuna «eccezione» neo-fascista allora, ma effetto di retroazione» e tentativo di «ristrutturazione interna» dello stesso neoliberalismo. Secondo le tesi del libro, la proposta sovranista in Europa, a differenza del progetto di Trump, si risolverebbe infatti principalmente nell’inasprimento di una gestione escludente della cittadinanza, le cui condizioni sarebbero tuttavia da rintracciare nelle disuguaglianze e gerarchizzazioni coloniali su cui si è fondata ab initio l’Unione Europea. Perché se si guarda oltre alla rivendicazione di un lessico e di alcune pratiche precedentemente ritenute da tenere ipocritamente nascoste (e questi giorni ce lo ricordano), non vi è alcun reale segno di rottura politica con la precedente gestione del fenomeno migratorio. Una gestione che aveva trovato nell’imbricazione governamentale tra delirio securitario e discorso umanitario la chiave per mantenersi apparentemente innocente e nutrire quella che, con Bouteldja, Mellino chiama la «buona coscienza bianca».

L’AUTORE ci mette allora in guardia da qualsiasi tentazione di ripiegare il conflitto politico su un discorso umanitario (perverso e coloniale) che si mostra come completamente interno a un unico dispositivo di produzione differenziata di popolazioni e territori, capace di tenere insieme in un’unica filiera, militarizzazione e gestione caritatevole (semi-servile) delle eccedenze: repressione, terrore e morte da un lato, accoglienza e incorporazione differenziale dall’altro. Un libro con cui riflettere per costruire un «antirazzismo di rottura». all’altezza della sfida presente.