Distillato nel tempo e nella tensione, come normalmente arrivano gli spettacoli di Massimiliano Civica, anche questa Antigone andata ora in scena a Prato (ancora stasera e domani al Fabbricone, poi all’Astra di Torino) implica riflessioni e pensieri, oltre a una profonda ammirazione per gli attori che la portano in scena. Antigone è da sempre, fin da quando Sofocle l’ha scritta nel quinto secolo avanti Cristo, un elemento di scandalo e di contrasto, eroina e vittima del «destino» che grava sulla famiglia di Edipo e sull’intera città di Tebe. Quando, a famiglia distrutta dallo scoppio tragico delle vicende di quel padre cui è contemporaneamente «sorella», i suoi fratelli si uccidono a vicenda in una guerra sanguinaria quanto insensata. E lei compie il gesto più clamoroso e ribelle rispetto alle leggi che in città ha dettato Creonte, lo zio di parte materna che assume il titolo e la funzione di re in quel grande «pasticcio» ereditario e morale.

LA RAGAZZA decide infatti di dover dare sepoltura, e quindi pace eterna, anche al fratello che per il regno ha marciato contro la stessa città natale. Il gesto di Antigone, la sua ribellione, in nome della giustizia e degli affetti, ne ha fatto da sempre una eroina romantica, ma in epoca recente, soprattutto «politica» (Rossana Rossanda, le ha dedicato mirabili e decisive letture, nella stagione successiva al terrorismo e alla repressione).
Civica lancia ora una sfida, sentimentale verrebbe da dire, prima ancora che politica, per riequilibrare la sua contesa con Creonte, indicando piuttosto la responsabilità della tragedia negli dei, ovvero nel loro portato di leggi, convenzioni e obblighi che ai cittadini vengono imposti e fatti vivere. I condizionamenti di ruolo e l’impotenza a voler reagire al peso dell’organizzazione sociale e normativa, sembra suggerire la regia di Civica, valgono non solo per la ribelle Antigone ma anche per il suo «carnefice» che personifica quella pesante legalità. Nonostante la bravura degli attori, dall’ottimo Oscar De Summa alle due sorelle, rivali o forse complici, Antigone e Ismene (Monica Piseddu e Monica Demuru) al Coro che ci restituisce in primo piano Marcello Sambati, il racconto scorre via forse troppo veloce. Getta i suoi lampi ( anche attraverso le arguzie romanesche di Francesco Rotelli in ruoli diversi), ma si allinea in una sorta di algido oratorio. Si vorrebbe saperne di più, senza fretta, da parte dello spettatore, che pure intuisce quanto ci sia contemporanea e catastrofica questa nuova lettura di quella indomabile donna, di carattere e «di dolori», come direbbero i versi di una grande poetessa di oggi.