Alla pari di ideologie e pregiudizi, lo stereotipo produce la realtà, poiché possiede efficacia simbolica. Le concezioni della realtà e i sistemi di valori a essa associati orientano le azioni degli esseri umani. Con una formula cara a Ernesto de Martino, la napoletanità esiste se e poiché tutto accade come se esistesse. Analizzarne l’efficacia simbolica significa dunque analizzare come lo stereotipo si fa storia, determinando la realtà economica e sociale.

LO STEREOTIPO però, notava Amalia Signorelli, provoca irritazione. In chi lo usa, poiché dovrebbe ammettere di ragionare per stereotipi. E a maggior ragione in chi ne è oggetto, nessuno è contento di vedersi ridotto a una o due caratteristiche della propria identità e fissato a esse per sempre. E Napoli è la città inchiodata ai suoi stereotipi e spesso in contraddizione fra essi. Ma, da almeno due lustri, la napoletanità è nuova gallina dalle uova d’oro. A dispetto di Nitti e della sua Legge per Napoli del 1904, secondo cui col turismo non si fa economia, essa è business, ma anche turistificazione e gentrificazione. Si cominciano oggi a studiare gli effetti del turismo sulla città, nelle forme di autoriflessione sulla immagine e sulle sue modificazioni. La ritrovata vocazione fa certo eco alla Napoli meta del Grand Tour alla ricerca delle radici culturali e della bellezza estasiante dell’Europa, tanto da mozzar il fiato a Goethe, confessando «vedi Napoli e poi muori».

IN TALE SCENARIO va inserito Vendi Napoli e poi muori (Magmata, pp. 336, euro 15), l’esordio letterario di Gennaro Ascione. Un noir fantascientifico, con una scrittura sarcastica, ambientato nel XXV anno della Rivoluzione del «Governo della città insediatosi al potere grazie a una sagace strategia politico-mediatica populistica ed eversiva». Il libro si svolge fra i luoghi del turismo, in un intrico di fatti di sangue, vittime dello «sfruttamento della napoletanità come feticcio culturale». Ascione si muove fra decadenza del senso comune e futuro prossimo, descrivendo il paesaggio quale contraltare alla psicologia dei personaggi, vittime di una città che ha dimenticato la sua storicità, mentre sullo sfondo aleggia il verdetto di J. G. Ballard, «nella zona del disastro ciascuno di noi c’è già ed è troppo tardi per uscirne».

Dal Duomo alla Cappella Sansevero, da Palazzo Serra di Cassano alla Basilica dello Spirito Santo, fra omicidi, misteri, subbugli, la scrittura s’infittisce giocando abilmente con la memoria della città e, metaforicamente, col suo sacrificio, in pasto alla Rivoluzione quale alimento della conquistata autonomia della città, sia economica che politica.
In Vendi Napoli e poi muori echeggiano rimandi, più o meno espressi, alla contemporaneità: parole tipiche del lessico politico dell’amministrazione cittadina dell’ultimo decennio. Invero questi rimandi sono stratificazioni storiche di almeno tre secoli di regni e sovrani succedutisi in varie forme sul soglio di Napoli; dall’Unità in poi, vi è stata una ripresa, da chi più e da chi meno, di tale passato, velata di melanconia (appocundria) per ciò di cui, oggi, si contempla la gloria, quasi come l’Angelus Novus di Klee, con il petto pronunciato alla modernità e il volto mestamente al passato.

GLI STEREOTIPI sono perigliosa minaccia quando non si è ben attrezzati. Come studiato da Gramsci, tanto il pregiudizio quanto lo stereotipo possono divenire ideologie per razzismo e xenofobia, così da soddisfare istanze economiche e politiche. Il razzismo, parafrasando Balibar, è «sempre in eccesso rispetto» ai pregiudizi e alle caricature, alle rappresentazioni e ai costumi delle identità. Dallo stereotipo alla banalizzazione della storicità e dell’identità per giustificare crescita economica, e foraggiare propaganda politica, il passo è davvero breve.