Se Schubert è l’eterno fanciullo val forse la pena di sentire quello che scriveva quando era fanciullo davvero, di età vogliamo dire, cioè a 13 anni. Carinissime le Sette variazioni facili in sol maggiore. Un solo motivo – e lui si rivela già quell’inesauribile inventore di motivi che sarà per tutta la breve vita – e tenere variazioni, ovviamente quella lenta così malinconica prende alla gola. C’è anche un’altra suggestione che spinge a mettere all’inizio del concerto questa sconosciuta opera schubertiana. Lo spiega il pianista Krystian Zimerman, divo del concertismo come pochi, con fama di austero, eppure generoso intrattenitore del pubblico, con microfono e traduttore, durante l’intervallo tra il primo e il secondo tempo. Quest’altra suggestione è: osserviamo la musica di Schubert all’inizio e alla fine della carriera, dato che le altre opere del programma sono le due Sonate scritte pochi mesi prima di morire (nel 1828, a 31 anni).

Sala di Santa Cecilia non proprio gremita, come ci si potrebbe aspettare visto il nome del protagonista. Nell’Allegro iniziale della Sonata in la maggiore D. 959 la sonorità di Zimerman e la sua «pronuncia» non sono così lucide come le ricordiamo dalle incisioni. Morbido, pacificato, un po’ uniforme, quel tanto di radicalismo che era sembrato di scorgere in lui è svanito. Schubert qui, come in tutta la sua musica, non è che estende molto i suoi sviluppi del tema, sono le riprese del tema stesso che costituiscono il clou o il polo d’attrazione. Ma è il momento dell’Andantino, alzi la mano chi non lo aspetta con trepidazione. Quasi disperato più che struggente il motivo di base. Artur Schnabel, il primo a scoprire le due ultime Sonate di Schubert, lo suona, nelle storiche incisioni del 1937-’39, in maniera quasi espressionista, quasi come un presagio di immani tragedie. Zimerman non solo attenua il tono ma si mostra un po’ scolastico. Il controllo del suono e della struttura è qui come in tutto il concerto assoluto. Ma il guizzo manca.

Forse è lo Scherzo quello che gli riesce meglio. Punta sull’equilibrio invece che sulla brillantezza e risulta anticonformista. Ma con Zimerman non abbiamo sul palco né l’eroe romantico né l’analista moderno del testo. Ancora un carattere speciale del suo stile lo troviamo nel «rallentando» che impiega in certe parti dell’Allegretto conclusivo. Però nel complesso della D. 959 è piuttosto monocorde. Probabile che voglia esserlo ma l’impressione è che esageri. Il suo pane è di più la Sonata in si bemolle maggiore D. 960. Nel frattempo ha avuto modo di informarci che il suo pianoforte personale, che in genere si porta sempre dietro, ha una tastiera nuova.

Nel Molto moderato iniziale dell’ultima Sonata schubertiana Zimerman è mirabilmente meditativo. La classe interpretativa è qui di rara qualità. Forse ama di più quest’opera. Anche nel mestissimo e complesso Andante sostenuto è davvero interessante (ma il tono tragico di Schnabel ovviamente non c’è). Prende un tempo assai lento, ben oltre l’indicazione dell’originale, e valorizza l’andamento rapsodico, meno definito e conchiuso, della melodia. Lo Scherzo lo esegue per convincerci di nuovo che la sua scelta è l’equilibrio «di testa» dell’interpretazione, magari trascurando un po’ la delicatezza raccomandata dall’autore. Quanto all’Allegro ma non troppo finale a Zimerman è richiesta una qualche imperiosità nel cambio brusco centrale da una divagazione assorta a un attacco barbarico. Ci sta, è tecnicamente perfetto, ma non è questo il sapore più buono della serata.