Dovevo andare a pranzo da lei, come faccio sempre quando passo per Milano, due settimane fa. Ero lì per ricordare Rossana alla sua Casa della Cultura e Lea mi aveva detto che non si sentiva abbastanza bene per venire a via Borgogna. Non mi sono meravigliata: da tempo non usciva più di casa per via dei suoi guai di salute; e perché lasciava Enzo malvolentieri, dopo che la caduta in giardino da un albero (non ricordo cosa volesse cogliere) l’aveva gravemente menomato. Io dovevo tornare di fretta a Roma e così non abbiamo combinato.

In questi ultimi giorni ho chiamato per avere sue notizie: nessuna risposta. Anche di questo non mi sono meravigliata: Lea non usava il telefonino e capitava spesso che a casa nessuno rispondesse. Così come in ufficio, dove si poteva di solito intercettare la sua assistente, e dove lei stessa dormiva qualche volta sul divano. Per giorni ho riprovato a chiamare senza successo. E, preoccupata, mi ero ripromessa di chiamare amiche e amici. Sono stati loro, invece, a chiamare me.

La mia amicizia con Lea durava da quasi cinquant’anni, era un triangolo che aveva vinto l’ostacolo della lontananza geografica: c’era infatti anche Rossana, non più milanese. Di lei, Lea diceva che aveva un carisma diverso da qualsiasi altra donna che avesse incontrato. Qualche mese fa – lei che ormai non viaggiava più – ha preso un treno per venire a farle visita a Roma. A lei e a me, giovanissima ma già critica d’arte ben conosciuta aveva deciso di lasciare la sua eredità, per sostenere il manifesto. Ricordo anche quando Lea ci comunicò la decisione, perché fu alla Galleria di arte moderna e contemporanea di Valle Giulia e conservo una nostra bella foto in quelle sale in cui appaio giovanissima persino io.

Perché del manifesto Lea Vergine è stata a lungo preziosa collaboratrice. Nel libro-intervista L’arte non è faccenda di persone per bene (conversazione con Chiara Gatti), che mi chiese di presentare al Festival della letteratura di Mantova – il Teatro Bibbiena stracolmo e affascinato dalle sue parole e dalla sua autoironia – racconta come fu stupefatta quando, proprio alla vigilia dell’uscita del quotidiano, Luigi Pintor le propose di scrivere. Stupore che un giornale tanto politico intendesse occuparsi anche di cultura contemporanea. «Un’eccezione», commenta. E poi scrive di quanto le piacesse fare tappa in redazione: «era molto bello sentirsi parte di quella macchina, c’era la vivacità, l’anticonformismo, l’entusiasmo, e l’impressione di fare qualcosa di veramente utile».

Tornavamo spesso a parlare di femminismo, soprattutto per via di Carla Lonzi che il mestiere di Lea – critico d’arte – l’aveva abbandonato per occuparsene. C’è una critica femminista dell’arte? le chiedevo. Non mi ha mai risposto, e però il suo primo saggio è stato Il corpo come linguaggio, titolo che peraltro riassume il suo principale interesse e dunque non poteva non esserci in Lea una lettura dell’arte consapevolmente svolta in una prospettiva di genere. Magari sottesa. Come tutto era in lei, che, per autoironia credo, non declamava mai.

Di Lea Vergine in un documento (diploma ? premio? non ricordo) dell’Accademia di Brera è scritto che era «rigorosa, anticonformista, raffinata, sagace, ironica, originale, capace di dialogare con la cultura nazionale e internazionale». Non si nasce invano alle falde del Vesuvio, osservava quando qualcuno le faceva un complimento. Credo alludesse alla bizzarria, grande virtù partenopea.