A sentire i fondatori, tutto chiaro. «Roma è il nostro punto di partenza: è il nostro simbolo; o se si vuole, il nostro mito. Noi sogniamo l’Italia romana, cioè saggia e forte, disciplinata e imperiale». Così Mussolini in occasione del «Natale di Roma» sul proprio giornale, nell’aprile 1922. Ante marcia, quindi. Più astratto e generico Hitler, in un discorso al Reichstag del gennaio ’39, sei anni dopo la Machtergreifung, sei anni prima della fine: «Il debito che il germanesimo ha con l’antichità, nel campo dell’assetto statale ma poi anche del proprio sviluppo spirituale e nel settore della cultura in generale, è non misurabile nei dettagli e, nel complesso, gigantesco». E oltre alle linee espresse dai capi, molto altro: soprattutto in Italia, libri, francobolli, monete, statue, monumenti, film. L’antichità aveva grande spazio nei fascismi europei. Fa il punto sul tema il Brill’s Companion to the Classics, Fascist Italy and Nazi Germany, curato da Helen Roche e Kyriakos Demetriou nel quadro di una serie dedicata alla Classical Reception (Leiden, pp. 471, € 182).
Ma a quale antichità si faceva riferimento? Il paradigma era flessibile, sicché ogni sintesi è parziale. Si diceva «antichità», «Grecia», «Roma», ma da questi contenitori venivano ritagliati dei momenti, per costruire una immagine ideale, una narrazione rigenerante utile a proiettare gli animi verso nuovi (ma antichi e già scritti) destini. Ne derivava una combinazione mutevole. Per il fascismo, si guardò a Roma, soprattutto imperiale, più o meno cristiana a seconda delle opportunità di relazioni col Vaticano: un mito utile per raccontare sia la rivoluzione, sia la conservazione. Per il nazismo, invece, contava una varia combinazione di Grecia (guerriera, spartana), Germania (purezza genetica, purezza etica) e Roma imperiale (per le infrastrutture: come la Kongresshalle di Norimberga). Forse anche per questa varietà, valutare il ruolo dei modelli antichi sui due movimenti è più difficile che non sembri. Di certo, non basta liquidare la romanità littoria o la «spartanità» nazista come un ciarpame privo di gusto o di senso: caduca può apparire oggi certa esteriorità di manifestazioni, ma profondi e persistenti segni di quella stagione marcarono piazze, musei e biblioteche, e forse le coscienze.
Assoluzioni complici o smemorate
Il tema è rimasto a lungo estraneo all’interesse degli storici, ma occupa da quarant’anni filologi e archeologi. Il primo ripensamento venne già da quanti furono direttamente coinvolti, come protagonisti o vittime, o come testimoni. Ma l’elaborazione ha conosciuto un percorso difficile, segnato da reticenze e polemiche, in Italia come in Germania. Si sono viste sia assoluzioni complici o smemorate di studiosi compromessi con i regimi, sia pesanti e irrevocabili condanne. Il Companion Brill cerca la via mediana, invitando a non credere sempre all’innocenza di quelli che furono vicini al potere, ma nemmeno all’idea che tutto quanto si scrisse o si fece allora sia sempre disprezzabile perché dettato dall’ideologia (o dall’adulazione).
Rispetto all’antico, Italia e Germania mostrano due elaborazioni differenti. Varia fu la continuità che portò dai classicismi e i filellenismi di età romantica ai nazionalismi, e alle dittature. Poco conta che Mussolini o Hitler mostrassero una conoscenza del tema superficiale o errata: non di filologia o storia si nutriva il loro discorso. E il loro pensiero, alla bisogna, riceveva forma più colta grazie a solerti pennivendoli. I saggi del Companion si rivolgono piuttosto a ricercare radici, usi e sviluppi del paradigma. Senza sistematicità, per altro: e dunque, per la Germania, si muove dalle fasi ottocentesche della ricerca sugli «Ariani», con le successive ricadute razziste e antisemite, e poi le ambiguità del circolo riunito negli anni trenta del Novecento intorno al poeta Stefan George: un approccio alla grecità antistorico e antifilologico, che piacque anche al conte von Stauffenberg (l’attentatore del luglio 1944). Da quella linea nicciana e antifilologica derivarono (particolarmente per Platone) interpretazioni che oggi appaiono pre-naziste, ma che forse non sono morte con il nazismo. Più esplicitamente propagandistico fu l’approccio ai classici imposto(si) nelle scuole del Terzo Reich, studiato da Helen Roche. Se si passa alle scelte individuali, si incontrano quelle tormentate, al tempo del regime, di studiosi (non antichisti) come Adorno, Auerbach e Klemperer, e soprattutto il notevole ruolo degli archeologi – vista la forza evocativa di oggetti e monumenti. In Germania il gruppo accademico ha a lungo difeso, come mostra Stefan Altekamp, l’idea fallace che l’archeologia classica non fosse compromessa con il nazismo (a differenza da quella preistorica e dalla storia antica): il condizionamento fu molto notevole, e con effetti di lunga durata, anche per l’emigrazione forzata di molti importanti studiosi.
La terza Roma sognata da Mazzini
Per l’Italia il Companion non si sofferma sulle radici del «mito di Roma», mito che però attraversa tutto l’Ottocento italiano: una «terza Roma», dopo quella dei cesari e dei papi, era stata sognata da Mazzini, prima che da Mussolini. L’antichistica italiana è inquadrata direttamente nell’età del fascismo: Dino Piovan esamina gli esemplari percorsi e le differenti scelte politiche di studiosi come De Sanctis, Ferrabino, Momigliano e Treves, alle prese con il regime ma anche con il ripensamento storico della propria disciplina accademica. Il fascismo, meno interessato alla cultura greca, esibiva una romanità militaresca, disciplinata, dominatrice, virile, più italica che ellenistica, quindi «nazionale». Ma, come mostra Jan Nelis, non era (solo) un mito regressivo, quanto piuttosto un approccio paradossale, palingenetico alla modernità. Per questo è opportuno soffermarsi con attenzione sul «piccone del regime»: quello che operò in Roma città larghi sventramenti allo scopo di creare il «teatro del consenso» e lasciare i monumenti a «giganteggiare nella solitudine» (ma la pratica aveva importanti precedenti di fine Ottocento). Per questo oggi si possono considerare con sguardo nuovo, superato il rigetto totale alla Bruno Zevi, i prodotti dell’architettura durante il ventennio, gli edifici di Vaccaro o Moretti, e persino di Piacentini. I quali produssero in Italia risultati assai migliori rispetto ai classicismi e ai gigantismi creati da Speer in Germania: quella grandiosità celava di fatto un’ossessiva pulsione di sacrificio e morte, cui risposero le bombe angloamericane…
Non c’era poi solo il mondo accademico: l’antico parlava con più immediata evidenza quando era veicolato da mezzi potenti e popolari, come il cinema. Le differenze tra i due regimi, per mezzi e messaggi, si comprendono assai bene ponendo l’opera di Leni Riefenstahl versus quella di Carmine Gallone. Importanti osservazioni vengono anche da eventi come le Olimpiadi di Berlino (1936) e la Mostra augustea della Romanità (’37-’38). Nel caso della Mostra, l’impegno scientifico si mescolò inestricabilmente a una operazione tutta propagandistica. Nel Companion si parla, ovviamente, del Führer in visita a Roma nel maggio 1938, la «giornata particolare» del film di Scola: ma non si parla di Bianchi Bandinelli, l’archeologo e poi antifascista che fece da guida a Hitler e Mussolini, e li ritrasse sotto gli pseudonimi di Mario e Silla nel memorabile Diario di un borghese, pubblicato nel ’48. Negli anni del massimo consenso per il regime, dopo che nel ’36 l’impero era tornato per poco tempo sui colli fatali, pochissimi capivano dove quell’orgia romanolatrica poteva condurre.
Su un tema così vasto, un Companion non può dire tutto: poco utile allora rilevare che manca, per esempio, il ruolo della «romanità» nelle colonie, soprattutto in Libia. Non disturbano troppo i (parecchi) refusi nell’italiano e nel tedesco. Spiace invece certo squilibrio nella concezione e nella qualità dei contributi. Numerose sovrapposizioni erano evitabili con un editing più stringente. Si nota poi che la maggior parte dei saggi è affidata a studiosi stranieri: ossia né italiani né tedeschi. Certo, nazismo e fascismo sono temi di ricerca internazionali, e non necessariamente lo sguardo dall’interno dei paesi coinvolti è il migliore. Ma l’esito è l’emarginazione della ricerca italiana e tedesca e, per contro, la valorizzazione di recenti lavori anglosassoni presentati come «pionieristici», ma di fatto volti a temi già ben studiati (in altre lingue). Sono gli effetti ormai generalizzati del monolinguismo storiografico: diventerà monopensiero?
Incertezze emergono quando si passa dai fatti o dalle idee alle persone: la vicenda culturale degli studiosi e accademici coinvolti nella macchina delle dittature richiede esperienza. Per capire la fascistizzazione dell’Antico si deve conoscere il dettaglio di persone e luoghi (e consultare con cura il Dizionario Biografico degli Italiani). Spiace, per esempio, leggere di D’Annunzio «futurista» (p. 273), o che «gran parte della nostra esperienza attuale di città iconiche come Firenze e Venezia è il prodotto di scorci legati all’era fascista» (p. 345). Dette in inglese, alcune cose fanno forse meno effetto: ma certe osservazioni banali sopra la «totalitarian legacy» in Italia e Germania andavano evitate (p. 448-54). Certo, in Italia sopravvivono segni pubblici del fascismo (e anche ritratti esposti di Mussolini), mentre in Germania no: ma ciò dipende dalle vicende belliche e postbelliche, più che dallo sfondo ideologico dei due regimi, e dei due paesi.