Incontriamo Paolo Matthiae in occasione di Tourisma, il salone internazionale dell’archeologia, in corso al palazzo dei Congressi di Firenze. Accademico dei Lincei e illustre studioso di archeologia del Vicino Oriente, Matthiae interviene al salone per fare il punto sulle distruzioni del patrimonio culturale in Iraq e Siria.

La relazione che presenta a Tourisma è dedicata a Khaled al-Asaad, storico direttore del sito archeologico di Palmira, barbaramente assassinato dall’Isis. In Italia sono già state numerose le iniziative per ricordarlo, da ultima la dedica di una sala al museo Salinas di Palermo. A suo avviso, perché l’uccisione di al-Asaad ha colpito l’opinione pubblica più di quella, quotidiana, di centinaia di civili siriani?
Credo che l’ondata di commozione sia dovuta innanzitutto all’atrocità della morte di Khaled. È poi un fatto del tutto straordinario che un archeologo noto per le sue competenze e proveniente da un paese in via di sviluppo, perda la vita per difendere il patrimonio culturale. Non bisogna dimenticare, inoltre, che il luogo dell’esecuzione di al-Asaad è Palmira, sito che ha una risonanza mondiale amplissima. Anche persone che non hanno viaggiato molto, sanno che nel bacino del Mediterraneo Palmira è, assieme a Pompei, Petra e Leptis Magna, un luogo incomparabile dell’antichità romano-imperiale.

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Khaled Al Asaad

Dopo l’escalation di distruzioni del patrimonio artistico avvenuta lo scorso anno in Iraq e Siria, l’esplosivo dello Stato Islamico sembra tacere. Non è detto, però, che le devastazioni si siano arrestate. Che notizie ha al proposito?
Per quel che sappiamo dalla Direzione generale alle antichità e ai monumenti siriani, non si sono verificate nuove eclatanti distruzioni e questo dipende molto probabilmente dalla situazione politico-militare, che sta diventando difficile per l’Isis sia a Mosul che nella zona di Aleppo. In questo momento, gli jihadisti hanno distolto l’attenzione dai siti archeologici per occuparsi di altro. Ciò non sminuisce la gravità delle distruzioni verificatesi finora e delle quali non riusciamo a misurare fino in fondo i danni per entrambi i paesi coinvolti.
Poi ci sono i bombardamenti dovuti al conflitto siriano, ora particolarmente preoccupanti nel caso di Aleppo, e gli scavi clandestini che procurano allo Stato Islamico oggetti da immettere sul mercato nero.  Se la cittadella di Aleppo subisse dei bombardamenti, la disfatta del patrimonio culturale sarebbe superiore a quella di Palmira. Ma d’altra parte, durante la Seconda guerra mondiale, è successo di peggio. La verità è che siamo di fronte a una nuovissima barbarie, la quale ripete, tuttavia, un’ efferatezza non estranea all’Occidente. Per quanto riguarda gli scavi clandestini, totalmente fuori controllo, è accertato che l’Isis rilasci permessi per scavi brutali e ponga delle tasse sugli oggetti rinvenuti. Considero però inopportuno affermare che la vendita dei reperti sia la prima fonte di guadagno dello Stato Islamico. Ci vorrebbero un centinaio di quadri di Leonardo, forse. Basta guardare i prezzi di case d’asta quali Christie’s per rendersi conto che le tavolette cuneiformi – quelle più rilevanti – costano poche decine di migliaia di euro. In Siria, oltretutto, non si trovano tavolette ovunque. La tipologia di oggetti che s’incontra con più frequenza raramente può raggiungere cifre esose sui mercati antiquari. Piuttosto, bisognerebbe chiedere alle cancellerie di certi governi chi finanzi l’Isis.

Anche Ebla, l’antica città mesopotamica che lei ha riportato alla luce in quarantasette campagne di scavo dell’Università La Sapienza di Roma, rischia di scomparire. Cosa sa sul suo attuale stato di conservazione?
Ebla ha subìto scavi clandestini importanti ma niente di paragonabile alle devastazioni irreversibili di Mari e Dura Europos. Dalle foto satellitari si può osservare la presenza, sul sito, di alcuni accampamenti di ribelli. Le dimensioni ridotte di tali installazioni scongiurano fortunatamente il rischio di bombardamenti massicci ma, allo stesso tempo, impediscono ai guardiani un regolare accesso alle rovine. Alcune fonti riferiscono di un lancio di missili a Ebla ma le immagini che circolano su Internet mi lasciano perplesso. Il buco causato dalla presunta caduta del missile sembra derivare piuttosto da uno scavo clandestino.

L’assiriologo Jerrold S. Cooper ha calcolato che negli ultimi venti anni di scavi clandestini nel territorio della Babilonia sono emersi documenti cuneiformi in una quantità paragonabile a quella che gli scavi regolari delle missioni archeologiche avevano riportato alla luce nei precedenti centocinquanta anni. E ha dichiarato che la provenienza illegale dei reperti non lo dissuade dal pubblicarli. Lei – nel suo libro «Distruzioni, Saccheggi, Rinascite» (Electa) – ha affermato che in questo modo si incoraggiano gli scavi illeciti, assumendo una posizione eticamente opposta. Ma come si comporterebbe davanti ai risultati scientifici di tali pubblicazioni?
A quel punto diventerebbe non più una questione di ordine morale ma di coscienza scientifica. Cooper e, più in generale, i filologi si domandano perché dovrebbero celare delle informazioni. Davanti a un dato di importanza storica fondamentale, ad esempio cronologico, l’archeologo non può esimersi dal tenerne conto. Qualunque sia la provenienza del reperto divenuto oggetto di indagine.