Fra le eccellenze cinesi, Wang Luyan non è tra le più conosciute in Europa; anzi, poco. Lorand Hegyi, eccellente critico esplorativo, gli ha dedicato lo scorso anno una corposa personale al Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Saint-Étienne, di cui è direttore. Adesso lo stesso Hegyi ha deciso di far conoscere al pubblico italiano, in una mostra nella Galleria Alessandro Bagnai di Firenze (aperta fino al 31 ottobre), questo artista nato a Pechino nel 1956, che sebbene profondamente radicato nella storia delle avanguardie postmaoiste del suo paese, e volentieri partecipe, almeno nella prima parte della sua carriera, alle dinamiche di gruppo che quella storia contrassegnano, si distingue per una poetica singolare, quasi a contrasto con la glaciale impersonalità dei suoi intendimenti. Rispetto alle problematiche del dissenso, come di quelle della commercializzazione glamour che ha coinvolto gran parte dei dissenzienti a partire dagli anni novanta, Wang Luyan non sembra aver mai perso la testa, mantenendo ferme, pur nella sperimentazione di diverse maniere (aveva cominciato su un registro iper-espressivo e oggi è tra gli artisti concettuali più conseguenti della scena cinese), le sue ragioni più intime.
Di che si tratta? A partire dalla fine degli anni ottanta, quando è tra i protagonisti (in successione) dei gruppi Analysts e New Measurements, antagonisti sì ma in nome di una radicale depurazione linguistica che bandisse ogni forma di frontalità neoromantica, di gestualità pittorica, di vezzo o sbruffoneria citazionista, Wang Luyan mette a punto un sistema segnico che sembra riallacciarsi, più o meno deliberatamente, a un filone mitologico novecentesco di impronta dada, con il comparire e il perfezionarsi di sibillini oggetti disfunzionali, sia nitidamente disegnati in acrilico su tela, sia realizzati a tutto tondo industrialmente. Dopo dieci anni di silenzio (1997-2007), che non si direbbero ritiro ascetico ma ruminazione di possibilità intraviste, l’artista esplode con alcune serie a tema (orologi, armamenti, siringhe, chiese, uccelliere, utensili, biciclette: se ne ha documentazione in un libro del 2011, Visual Thinking and Measured Painting, pubblicato in inglese da Skira), in cui il rovello di trovare degli antimodelli alla logica imperante (che si può anche interpretare come la logica ferrea e impietosa della nuova economia di mercato cinese) si appunta in modo quasi esclusivo sul concetto di paradosso, sull’idea che la razionalità vada ‘disarmata’ dall’interno, con i suoi stessi strumenti e malizie. Ecco allora che gli oggetti di Wang Luyan, un po’ come la Ruota di bicicletta di Duchamp o il Cadeau di Man Ray, vengono ad assumere un significato aleatorio, congegnati come sono in modo inutilitario e celibe. Anche se l’artista cinese è spesso tentato non solo dalla dissipazione del senso ma anche dal suo perfetto rovesciamento, come indica, in una delle sale bianche e respiranti della Galleria Bagnai, la grande pistola in acciaio inox (appositamente realizzata come del resto le altre opere esposte, tutte tele disegnate in acrilico), dove il meccanismo di espulsione del proiettile è realizzato al contrario, in modo che venga colpito chi spara.
Il nodo politico del contendere, per Wang Luyan, si è ormai definito – con la scabra e aguzza potenza di un disegno il più possibile anonimo, di tipo quasi industriale – nel binomio distruzione-autodistruzione. Già nella serie Armamenti, realizzata dopo l’uscita dal silenzio, e della quale in questa occasione si può ammirare il W Tank D0801 del 2008, questo motivo prendeva la scena in modo violento e pervasivo, pur nella giocosità del segno, che rimandava, sembra, ai repertori pubblicitari e alle sagome da colorare dei bambini. Si può anzi dire, alle luce della grande pistola, che il dispositivo concettuale miri proprio a far capire, gradualmente, che sembra un gioco ma si tratta di massacro, esattamente all’opposto, per stare all’Italia, di Pino Pascali, le cui armi a dimensione uno a uno, dalle sembianze di armi, si rivelavano infine macchine ludiche e ‘spostate’: al posto del lucente e minaccioso acciaio di Wang Luyan Pascali utilizzava non per caso, assemblandoli con la leggerezza del bricoleur di strada, materiali di scarto come residuati meccanici, tubi idraulici, vecchi carburatori, rottami, manopole. Ma Roma (o Polignano a Mare) negli anni sessanta non è la Pechino odierna, dove la critica della cultura non sembra poter concedere rilassatezze o sognanti fughe, dove la liberazione delle energie porta con sé un contrapposto malefico, benissimo contrassegnato dagli algidi paradossi di Wang Luyan. Nel 2007, alla galleria Arario di Pechino, il nostro espose una macchina della tortura con ruota dentata che, senza ambire alla perfetta e onnisciente trascendenza del mostro meccanico di Kafka, adibito a incidere la sentenza sulla pelle del condannato, o al cinismo irridente degli slittamenti semantici duchampiani, si chiedeva laconicamente, questo il titolo, Sawing or Being Sawed?, segare o essere segati?
Negli acrilici su tela ospitati da Bagnai, anch’essi giocati su un terreno di disorientante ambiguità conoscitiva, di allentamento dei codici percettivi, il ricordo corre subito a un maestro del disegno meccanico come Francis Picabia, che nella seconda metà degli anni dieci dava forma ai suoi già surrealisti détournements (con il motivo dominante, proprio anche a Duchamp, del femminino in sembianze di macchina) attraverso bizzarri disegni calibrati intorno a un ordine matematico, tiratissimi seppure ammorbiditi da lievi acquarellature. Cento anni dopo Wang Luyan sembra porsi su questa remota linea, depurata però di ogni residuo pittoricistico e resa quasi in sigla attraverso un neutro bianco e nero, disimpegnato proprio come se si trattasse di progetti aziendali. Entro questa purezza delle linee la concettualità ha modo di esprimersi nuda, per esempio in una serie fatta di sagome umane in movimento di cui non si capisce se si dirigano a destra o a sinistra, o in un disegno che recupera uno dei motivi cari a Wang Luyan, la gabbia, dove un uccellino è rinchiuso in un gabbia tenuta sospesa da tiranti regolati meccanicamente – non si tratta tanto della natura imprigionata, che implica una possibilità romantica di fuga, quanto del trasformarsi della natura in perfetto organismo senza vita, che risponde soltanto a un astratto ordine geometrico.
Anche Wang Luyan, come tanti artisti cinesi della sua generazione e oltre, ha dovuto misurarsi con i codici della pop art, che sono sembrati i più idonei a liberare il cervello dopo gli anni concentrazionari della Rivoluzione culturale, spesso attraverso abusi triviali e mascheramenti grotteschi. Sempre misurato nel selezionare le suggestioni esterne, Wang Luyan ha tratto invece dalla pop quel che risultava funzionale alle sue urgenze espressive. L’attenzione potenziata nei confronti degli oggetti di uso comune, celebrati attraverso enormi facsimili, non sembra troppo apparentarsi, comunque, con le sproporzioni di Oldenburg, che mirano a trasformare la realtà in un luna park di circostanze imprevedibili: in Wang Luyan prevale piuttosto un senso di minaccia, che sprigiona dalla consuetudine. Nell’enorme pistola argentata di questa mostra la pop è utilizzata dunque come monito e allarme.