Nel dicembre del 1959 la Mitsui, una delle più grandi zaibatsu nipponiche, notificava ai suoi 1278 lavoratori delle miniere di carbone di Miike, nel Giappone meridionale, l’imminente licenziamento, dovuto alla ristrutturazione delle politiche energetiche nel paese. La reazione dei lavoratori fu massiccia e nel biennio 1959-60 sfociò prima nella creazione di un nuovo sindacato e successivamente in una serie di scioperi e proteste fra le più grandi mai avvenute nell’arcipelago fin a quel momento.

Se le proteste e le rivolte che animarono il Giappone alla fine degli anni sessanta, contro la costruzione dell’aeroporto di Narita, a Okinawa ma anche per le strade da parte degli studenti, è stata ampiamente documentata attraverso pellicole, sia di fiction che di non-fiction, la rappresentazione dei movimenti operai o di resistenza del decennio precedente è un capitolo non molto conosciuto, sia in Giappone che nel resto del mondo.
Esiste la trilogia diretta da Fumio Kamei nel biennio 1955-56 sulle proteste contro la base americana di Sunagawa, resistenza che ottenne dei successi, e cinematograficamente una produzione che anticipa il modo di fare documentario del collettivo della Ogawa Production nei decenni successivi.

Ritornando alle miniere di Miike, nel corso dell’ultimo Festival Internazionale del Documentario a Yamagata, in una sezione esterna al programma ufficiale, sono state presentate delle proiezioni speciali dedicate ai gentou ed ai movimenti popolari che nel corso degli anni cinquanta hanno contribuito in maniera decisiva a diffondere il senso e le tattiche di resistenza contro il capitale ed i grandi gruppi finanziari. Gentou (o gento) è una parola giapponese che significa lanterna magica, e benché, come nel resto del mondo, questa tecnologia sia stata più in auge alla fine del diciannovesimo secolo, per poi venir soppiantata dal cinema, nell’arcipelago subì un’interessante revival negli anni cinquanta del secolo scorso. Si tratta di quello che oggi verrebbe comunemente definito uno slide-show, un film che proietta una serie di immagini fisse, ma, e qui sta la particolare declinazione e forma che assunse in Giappone, queste venivano proiettate con una narrazione dal vivo e talvolta anche con accompagnamento musicale, per formare una vera e propria storia. Questo «vecchio» medium venne così riadattato ed usato negli anni cinquanta da movimenti di base di lavoratori, ma anche da collettivi attivi contro l’occupazione di Okinawa, o studenti e cittadini impegnati in varie lotte sociali di resistenza. Più economiche e disponibili del cinema, i formati portatili non erano ancora ampiamente diffusi, queste rappresentazioni, che erano finalizzate a condividere le esperienze di lotta fra i vari collettivi, ebbero successo anche perché si inserivano in una tradizione culturale già ben predisposta. Le tre proiezioni a cui abbiamo assistito a Yamagata infatti, organizzate dai professori Hana Washitani e Koji Toba che ne hanno anche interpretato con passione le narrazioni, ricordano molto il cinema muto giapponese, con il ruolo del benshi, il narratore dal vivo che dava un vero e proprio tono e significato al film proiettato. Ma allo stesso tempo in queste gentou c’è anche molto del kamishibai, il teatrino fatto di disegni di carta, trasformati attraverso la narrazione in una storia coerente, spettacoli per bambini molto diffusi nel Sol Levante da molti secoli.

Underground Rage, la prima proiezione, è addirittura datata 1954, ben prima dei grandi scioperi nelle miniere quindi, ma il fermento ed il testa a testa fra padroni e operai era già ben presente. I fatti narrati sono quelli della cosiddetta «lotta dei 113 giorni senza eroi» del 1953, una protesta contro alcuni licenziamenti che coinvolse lavoratori ma anche i membri delle loro famiglie. «Non siamo degli schiavi della Mitsui!» «L’azienda vuole ucciderci!» sono solo alcune delle frasi che compongono una narrazione diretta violentemente contro lo sfruttamento e le condizioni dei lavoratori, mirata a formare una coscienza di classe che sia trasversale, che fuoriesca cioè anche dai limiti delle miniere di Miike e che si propaghi fino ai contadini delle altre zone dell’arcipelago.

Il secondo lavoro, Bloody Battle in Miike: Never Forgive These Atrocities è quello forse più topico, infatti si tratta di un reportage di una enorme dimostrazione avvenuta nel marzo del 1960 davanti agli uffici della Mitsui. Le immagini e le parole lasciano pochi dubbi, si vede come non solo sia intervenuta la polizia e fermare le proteste ma come sia stata chiamata ad infiltrarsi anche la yakuza, la mafia giapponese. Le fotografie sono abbastanza sconcertanti, scagnozzi vestiti in giacca e cravatta, sono ben duecento provenienti da due gruppi yakuza i membri della malavita chiamati a «proteggere» il capitale, che circondano i lavoratori impugnando bastoni ed altre armi. Uno di essi impugna anche un’accetta, arma che probabilmente fu usata per uccidere uno dei protestanti, Kiyoshi Kubo, barbaramente assassinato il 29 marzo del 1960.

Il terzo lavoro, Unemployment and Rationalization: Never Put Out the Fire of Botayama è datato 1959 e ragiona invece sull’impatto della possibile chiusura delle miniere e più in generale sul modus operandi di queste grandi zaibatsu, i gruppi finanziari e capitalistici giapponesi, e sulle conseguenze per le famiglie degli operai, donne e bambini in particolare. Mancanza di elettricità in abitazioni ridotte a baracche, scarsità di cibo e conseguente malnutrizione per i bambini che il più delle volte erano costretti a mangiare solo un pasto al giorno, presentano un quadro desolante che si ripete tutte le volte diverso eppure uguale, in diverse epoche ed in luoghi disparati, quando la macchina capitalistica si autoalimenta, sfruttando i più deboli e chi appartiene a classi ritenute «inferiori» e sacrificabili.

Le miniere di Miike sarebbero tragicamente tornate sulla ribalta della cronaca nel 1963 quando un’esplosione causò la morte di quasi 500 persone e l’avvelenamento di migliaia, fino ad un altro incidente nel 1997, fatto che ne decretò la definitiva chiusura. Questi gentou rappresentano allora sia un documento importantissimo su un’epoca che non c’è più, un documento realizzato dal di dentro, ma anche un esempio di come l’utilizzo di una tecnologia «sorpassata» quando adattata alla causa ed alla situazione, possa diventare espressivamente più che efficace e moderna.