C’è una cosa che accomuna i primi mesi di lavoro della maggior parte dei Ministri dell’Istruzione in Italia. L’ambizione, forse la speranza, di legare il proprio nome a una riforma «possibilmente» epocale del sistema formativo del Paese.

Sembra non sottrarsi a questa prassi anche il ministro Bussetti, che affronta peraltro uno dei temi più complessi e spinosi del mondo scolastico, quello della formazione e del reclutamento degli insegnanti. Nel marzo 2017, per parlare solo di storia recente, il Parlamento diede parere favorevole all’introduzione di un nuovo sistema di formazione e reclutamento degli insegnanti: non più il Tfa (chiedo scusa per i difficili acronimi, ma pensate come è dura la vita per gli aspiranti insegnanti) – vale a dire il tirocinio formativo attivo, una sorta di abilitazione –; ma un nuovo sistema, denominato Fit (formazione iniziale e tirocinio), previsto appunto dalla legge 107, che in tre anni avrebbe dovuto portare dalla ‘formazione alla cattedra’.

A solo un anno e mezzo da quella data, il nuovo Ministro dichiara chiusa l’esperienza Fit, percorso troppo lungo, che sarà cancellato. E questo cambiamento è, tra l’altro, previsto in legge di bilancio e non in un apposito provvedimento. «Ci sarà invece un concorso su posti vacanti e disponibili – spiega Bussetti – a cui potranno accedere anche i neolaureati, purché abbiano nel loro percorso universitario almeno 24 crediti formativi per esami di pedagogia e didattica. Aboliamo i percorsi post-universitari di specializzazione e abilitazione a pagamento. Abbiamo bisogno di giovani insegnanti, con nuova energia da immettere nel sistema scolastico e capaci di parlare alle nuove generazioni. Chi supera il concorso entra immediatamente in ruolo, chi non passa rimane abilitato e potrà riaccendere ai concorsi successivi. Dopo aver vinto il concorso ci sarà un anno di prova e formazione: snelliamo l’iter e lo velocizziamo». Ecco, prevale quell’ansia di «nuovo» di cui prima parlavo, mentre sembra non venir concessa a chi lavora da anni nella scuola la possibilità di stabilizzazione, secondo la precedente normativa.
In più c’è questa inquietante tendenza a mettere in contrapposizione giovani e anziani.

A orchestrare divisioni e contrapposizioni. E questa è una solenne sciocchezza.

La buona didattica ha bisogno di persone colte, capaci e competenti, che sappiano soprattutto dialogare tra loro. Vecchi o giovani che siano.

Infine, quello di cui certamente non ha bisogno la scuola è questa altalena, che cambia continuamente le carte in tavola, su ogni questione aperta, e che riconduce il tema del valore e della qualità dell’istruzione a singoli provvedimenti ai quali peraltro si attribuisce valore taumaturgico. Anche sul terreno dell’alternanza scuola/lavoro sembra che ci si stia muovendo in maniera, come dire, un pò burocratica. «L’alternanza costa troppo, riduciamone le ore».
Ma un bilancio di questa esperienza? Valutandone costi, limiti e efficacia?

Ho grandi perplessità rispetto a questo istituto, ma davvero mi sembra miope non avviare una seria verifica nonché una valutazione su quanto le scuole hanno realizzato nelle attività di alternanza. Ricordiamoci che la scuola è stata lanciata in questa avventura, senza che venisse fatta chiarezza su obiettivi e strumenti, per di più senza garanzie per i frequentanti visto che non è mai stata definita la Carta dei diritti e dei doveri dei «soggetti in alternanza».

Ma viva dunque la semplificazione! E allora dimezzamento dei fondi, e quindi riduzione «de facto» delle ore di alternanza. Ecco anche questa vicenda sembra confermare che per il nostro Paese, come ci dimostrano tutte le ricerche internazionali, la spesa per l’istruzione è appunto spesa e non investimento. Spesa che tra l’altro diminuisce sempre più (7 miliardi in dieci anni), pur essendo già fra le più basse d’Europa. Nella manovra sono previsti ulteriori tagli. E di questo dovrà rispondere il ministro e l’intero governo.