A tarda sera, quando il chiacchierio dei passanti e il fragorio dei motori, ormai affievolitisi, preannunciavano il silenzio della notte, le vie della città ci venivano incontro libere e delineate. Padroni dei nostri passi, con parole leggere sulla bocca, le percorrevamo spensierati, a perditempo. Neanche ci si accorgeva di quanta strada macinassimo, né si badava a guardare intorno, a osservarne le pareti di case e di palazzi che superavamo distratti ai nostri lati. Si camminava lungo quelle vie non sapendo a volte neppure dove portassero: diritte o tortuose, bitumate o lastricate, illuminate o semibuie, polverose o spazzate, comunicanti con altre strade o con nessun posto. Si proseguiva di buona voglia incrociandone e attraversandone di nuove, del centro e della periferia. E tutto scorreva con regolarità, nel consueto, senza impedimenti o imprevisti. L’ansia invece, perché di quella si trattava, di un’ansia degli spazi, ci coglieva non appena sbucavamo in uno slargo o in una piazza, in un’area vuota. Specie se ben definita, circoscritta, c’incalzava l’ansia di travalicarla e raggiungerne, se mai, una più ampia, più aperta. Pativamo insomma di claustrofobia dei grandi spazi.

Avevamo attraversato ansiosi, in periodi diversi, piazze grandissime, se consideriamo l’estensione di Prato della Valle a Padova o addirittura di piazza Carlo di Borbone, a Caserta, su cui prospetta la mole della reggia. Piazze contenenti elementi funzionali di arredo urbano come aiuole, specchi d’acqua, prati e contornate da edifici monumentali che a chiunque trasmettevano serenità e piacere visivo, a noi diffondevano incipiente inquietudine. Che riuscivamo a dominarla, se pur parzialmente, da una posizione elevata e panoramica: le balconate del Gianicolo a Roma o del Michelangelo a Firenze, il belvedere di Posillipo a Napoli o la sommità del monte Stella (zona San Siro) a Milano, o meglio la vista dal colle di Superga a Torino. Ma in definitiva qualsiasi spazio risultava insufficiente e angosciava l’idea che un tutto (uno scorcio di quartiere, porzioni di città o una intera) s’includesse e concludesse lì, in una veduta. Anche se da qualche altra parte fosse esistito uno spazio ancora più esteso, e di sicuro esisteva, pure ci sarebbe stato stretto, facendoci sentire poco meno che intrappolati, senza via d’uscita. Una via d’uscita che invece avevamo a portata di mano se ci s’infilava nel budello perfino dei più degradati dei vicoli; quello sì adeguato, protettivo e rassicurante, a misura d’individuo. Così acquietati si tornava a girovagare di buon grado, con parole leggere sulla bocca e il pensiero libero di spaziare all’infinito.

FEDERICO CARTELLI