Insieme a una gestione forsennata della pandemia, le manifestazioni scaturite dopo l’assassinio di George Floyd sono state il principale reattore del calo di consensi che ha interessato la presidenza Trump.

Nel guardare l’effetto domino di proteste generatesi, Pechino ha colto al volo l’occasione per sfruttarle a proprio vantaggio. E infatti, nonostante al suo interno la Cina non abbia mai dato l’impressione di interessarsi di diritti umani e uguaglianza razziale, ha subito fornito il proprio supporto al movimento Black Lives Matter.

Come scritto da The Diplomat, così facendo la Cina sperava sostanzialmente di veicolare due messaggi e scrollarsi di dosso l’attenzione internazionale per come stava gestendo la situazione nello Xinjiang e a Hong Kong. Innanzitutto, evidenziare l’ipocrisia degli Stati Uniti, meticolosi, nonostante i problemi interni, nel sindacare sull’operato di Pechino e a presentarsi come fari della democrazia e dei diritti umani.

E IN SECONDO LUOGO, sottolineare il fallimento del sistema liberaldemocratico a vantaggio del sistema politico cinese, e sedare così le voci di coloro che aspirano agli ideali americani. Tuttavia, per la Cina le proteste di Black Lives Matter non sono solo un’onda da cavalcare per azionare il proprio apparato di propaganda, ma un problema con cui ben presto dovrà venire a capo.

Quando si parla dei programmi di investimento cinesi per la costruzione di infrastrutture in Africa, si fa presto a pensare a strade e ferrovie, dimenticandosi delle infrastrutture tecnologiche, vero volano dei rapporti Africa-Cina e la cui influenza è universale. Dopo l’implementazione dei programmi cinesi di riconoscimento facciale in Africa, infatti, i diritti delle persone nere sono sempre più intrecciati con gli interessi di Pechino.

PROPRIO IN RIFERIMENTO alle violenze della polizia negli Stati Uniti, alcuni hanno sollevato la necessità di abolire i programmi di riconoscimento facciale usati dalla polizia perché le tecnologie con cui funzionano portano con sé le iniquità razziali generate dagli algoritmi.

I pregiudizi razzisti e le imprecisioni – che hanno già mietuto numerose vittime – sono stati segnalati da diversi studi e sono riconducibili alla modalità con cui questi strumenti vengono sviluppati.

Gli algoritmi, per funzionare bene, vengono sottoposti a molti dati attraverso cui imparano a riconoscere, prevedere o formulare giudizi sulle informazioni che elaborano.

Ma se i volti utilizzati per addestrare l’algoritmo sono prevalentemente uomini bianchi, il sistema farà molta più difficoltà a riconoscere donne e uomini neri. Automaticamente, quindi, in un quartiere prevalentemente bianco, il nero individuato da una telecamera verrà segnalato come «anomalo». I programmi di sorveglianza usati dalla polizia, inoltre, tendono a basarsi su dati che mostrano modelli di criminalità del passato per prevedere dove si verificherà il crimine nel futuro. In questo caso, la sovra-rappresentazione dei neri tra i detenuti americani non può che riprodursi in algoritmi affetti da bias razzisti e in programmi di sorveglianza più capillari nei quartieri abitati dalle minoranze.

PER OVVIARE A QUESTO VUOTO di dati, numerose aziende cinesi come Hikvision, Huawei e Cloudwalk hanno avviato programmi di riconoscimento facciale in diversi paesi dell’Africa, in modo da perfezionare le proprie tecnologie e ottenere software abbastanza accurati da essere esportati.

L’idea delle aziende cinesi è che se i sistemi verranno addestrati su un campione rappresentativo di dati biometrici di popolazioni nere daranno vita ad algoritmi non affetti da bias razzisti. La principale preoccupazione sollevata dai media internazionali è che la Cina stia tentando di esportare il proprio modello di sorveglianza di massa (in Cina le telecamere per il riconoscimento facciale sono passate da 176 milioni nel 2017 a 626 milioni nel 2020) rendendo i paesi africani più autoritari.

Ma questo non è l’unico problema: secondo Iginio Gagliardone, autore di China, Africa and The Future of the Internet, «credere che tutte le persone nere siano simili rischia di dar vita ad algoritmi altrettanto razzisti. Noi pensiamo facilmente alla dicotomia bianco-nero, ma in Africa esistono diverse etnie e tensioni fortissime tra le popolazioni. E le caratteristiche facciali dello Zimbabwe, ad esempio, dove Cloudwalk ha avviato un programma di riconoscimento facciale su larga scala, non hanno nulla a che fare con quelle delle popolazioni etiopi».

Anche parlando con Anil Jain, esperto di riconoscimento biometrico e professore di informatica alla Michigan State University, appare chiaro come, nonostante i miglioramenti, nessun sistema può considerarsi ancora privo di pregiudizi: «Dalla valutazione del Nist (il National Institute of Standards and Technology, ndr) del 2019, è stato evidenziato che, su oltre 100 sistemi di riconoscimento facciale analizzati, tutti hanno mostrato diversi gradi di bias discriminanti, anche con diversi gruppi demografici ugualmente rappresentati».

OLTRE A QUESTO, inoltre, non bisogna dimenticare che il continente africano è piagato dal conflitto etnico. I programmi di riconoscimento facciale sono strumenti politici e i governi che stringono questo tipo di accordi potrebbero sfruttare la mancanza di leggi sulla privacy per perseguire politiche discriminatorie.

In Sudafrica ad esempio, uno dei paesi più diseguali del mondo, Michael Kwet ha raccontato come i dataset su cui sono stati istruiti gli algoritmi di riconoscimento facciale si portano dietro i retaggi della segregazione razziale, e hanno dato vita a una nuova forma di apartheid tecnologico.
Sempre più analisti concordano sul fatto che l’Africa sarà l’ultimo campo di battaglia della competizione tra Cina e Stati Uniti nel campo dell’Intelligenza Artificiale, il cui vincitore potrà così aspirare al ruolo di leadership globale.

GLI STATI UNITI sono stati in gran parte freddi nell’esplorare i dati del continente e anche aziende come Google, più attente all’immagine che vogliono dare di sé, non riescono a trasmettere fiducia. Secondo Gagliardone, «da parte loro, oltre a un’ignoranza sconvolgente rispetto al contesto africano, c’è un’eccessiva fiducia nei confronti del perfezionismo tecnologico. Facebook, ad esempio, ha la pretesa che riuscirà a scovare l’hate speech sui social in Etiopia attraverso i propri algoritmi senza considerare che in Etiopia ci sono oltre 80 linguaggi parlati».

Come in epoca coloniale, dunque, l’Africa si conferma luogo da cui estrarre risorse: non più materie prime dal sottosuolo, ma facce e dati.
Oggi, grazie al vantaggio significativo di cui gode, il futuro delle persone nere si sta legando a doppio filo con la Cina.

Se Pechino può vantarsi di non aver costruito le proprie fondamenta sulla segregazione e la schiavitù, il razzismo è comunque un problema da cui non può considerarsi immune. Anche durante la gestione della pandemia, dopo che cinque studenti nigeriani presso l’Università di Guanghzou sono risultati positivi, sono stati segnalati numerosi casi di discriminazione nei confronti degli africani residenti in Cina generando così un’increspatura sull’idillio Africa-Cina, tanto che ad aprile i governi di Nigeria e Ghana avevano richiamato in patria i propri ambasciatori cinesi.

MA IL SENTIMENTO anti-africano scatenatosi durante la pandemia non è nuovo. Ci sono numerose testimonianze che ripercorrono la storia del razzismo cinese nei confronti degli africani.

Nel 1988, ad esempio, quando due studenti africani entrarono nel campus della Università di Hehai a Nanchino con due donne cinesi durante una festa di Natale, si accese una discussione che sfociò subito in rissa e che proseguì in proteste e violenze durate settimane.

E già vent’anni prima, in An African Student in China, pubblicato a Londra nel 1963, Emmanuel Hevi documentava la sua esperienza degli «arresti di ragazze cinesi per le loro amicizie con gli africani e, in particolare, i sentimenti cinesi di superiorità razziale nei confronti dei neri africani».