Il Presidente della Bce, Mario Draghi, ha annunciato in questi giorni nuove misure per far fronte al rallentamento dell’economia, dovuta a diversi fattori, dalla guerra sui dazi fra Trump e Xi Jinping alla Brexit, dalla crisi dell’auto tedesca ad elezioni europee più che incerte. I tassi di interesse resteranno fermi fino ad almeno a tutto il 2019, mentre verranno messe in campo nuove operazioni trimestrali di rifinanziamento del sistema bancario a più lungo termine (Tltro-III), con l’obiettivo «che le banche possano prendere a prestito e prestare denaro alle imprese e all’economia reale».

Siamo alle solite. La crisi, nonostante le ripetute dichiarazioni di questi anni da parte delle elite economico-finanziarie, sembra continuare ad essere l’unico scenario di riferimento.

D’altronde, poteva essere altrimenti, se tutti gli indicatori che avevano prodotto la crisi del 2008 sono di nuovo attivi, se non addirittura peggiorati? E se le politiche con cui affrontarli seguono l’austerità liberista senza soluzione di continuità?
Un primo impressionante dato ci dice che, secondo i dati ufficiali della Commissione Europea, dallo scoppio della crisi ad oggi, gli Stati membri dell’Ue hanno stanziato 1.400 miliardi di euro solo per ricapitalizzare le banche in crisi e coprirne le perdite; una cifra equivalente a quasi 10 anni del bilancio con cui l’Unione europea copre tutti i programmi comunitari.

Un secondo dato, fornito dall’Institute of International Finance, ci dice che il debito mondiale ha raggiunto nel 2018 l’incredibile cifra di 233.000 miliardi di dollari, pari al 325% del Pil mondiale; un debito a carico di imprese (68mila miliardi), Stati (58mila miliardi), istituzioni finanziarie (53.000) e famiglie (44mila miliardi).

Un terzo dato ci dice che il valore nozionale dei derivati in circolazione a livello mandiale ha ormai raggiunto la stratosferica cifra di 2,2 milioni di miliardi di euro, pari a 33 volte il Pil mondiale, mentre i paradisi fiscali viaggiano a gonfie vele, tanto che le multinazionali vi spostano ogni anno oltre 600 miliardi di euro (il 45% dei loro profitti esteri).

Anche il decantato Quantitative Easing, messo in campo dalla Bce nel quadriennio 2015-2018, si è rivelato un sostanziale fallimento; l’iniezione di liquidità a favore delle banche ha, infatti, aumentato solo in minima parte i prestiti alle famiglie, mentre non più del 27% si è tradotto in prestiti all’economia reale.
Sono dati che dimostrano come la polveriera della finanza globale sia rimasta immutata, in attesa della nuova scintilla capace di farla riesplodere. Anche perché nessuna riforma di quelle annunciate è stata portata a termine.

Nessuna normativa di separazione fra banche commerciali e banche d’investimento è stata adottata, nonostante sia proprio la commistione fra le due tipologie a rappresentare uno dei fattori fondamentali della crisi finanziaria. Perché ha creato il principio “too big to fail” (troppo grandi per fallire), che, invece di divenire monito universale sui rischi della finanza-casinò, è diventato l’autorizzazione a procedere per le banche, sicure del soccorso degli Stati in caso di necessità. Nessuna tassazione delle transazioni finanziarie è stata adottata, nonostante sia questo uno dei nodi fondamentali per mettere un freno alla speculazione finanziaria, che avviene attraverso milioni di transazioni, ciacuna prodotta nel tempo di sei microsecondi da computer ultra rapidi, dotati di potenti algoritmi matematici per individuare i micro-movimenti di mercato e trarre profitti dagli stessi.

Cosa ci dicono tutte queste riflessioni? Che, dopo la crisi, vi è di nuovo la crisi.

Ma forse è proprio questo lo scenario voluto, per proseguire nell’espropriazione di diritti, beni comuni e democrazia.