I cinque minuti dell’annuncio di Theresa May sono bastati perché il paese di punto in bianco si ritrovasse a cinquanta giorni dall’appuntamento con le urne, piombato in una campagna elettorale lampo che si annuncia infuocata. Del resto, da quando la Gran Bretagna ha votato per lasciare l’Unione Europea, è tutto un ticchettio di conti alla rovescia: due anni per negoziare la Brexit e ora nemmeno due mesi per vincere delle elezioni epocali, una pressione già enorme che non farà che aumentare con l’approssimarsi delle scadenze. C’è poco appetito per queste elezioni, sembra chiaro.

Un annuncio doppiamente a sorpresa quello di May: perché inaspettato, certo, ma soprattutto perché lei stessa – che non condivide in nessun senso il velleitarismo parolaio e voltagabbana del suo ministro degli esteri Boris Johnson -, aveva ripetutamente escluso questa possibilità.

Ma non è difficile comprendere cosa l’abbia fatta tornare sui suoi passi: un dato-chiave che, in mezzo alla retorica infarcita di stabilità e sovranità e sfide e certezze, non è sfuggito al più miope degli osservatori. I Tories sono dati al 42% nei sondaggi, il Labour al 27%.

Quella dolorosa sfilza di punti – chi dice quindici, chi venti – separa i Tories, mai così aitanti dagli anni Ottanta, da un travagliato e depresso partito laburista, che in questi ultimi mesi non ha fatto altro che spendere le proprie scarse energie e idee per far fuori il suo leader acclamato. Una proporzionale vittoria regalerebbe una maggioranza sul Labour ben più ampia di quella attuale, di soli dodici seggi. Per tacere dei Libdem, annichilitisi a dei miseri otto.

Aveva giurato e spergiurato che lei, Theresa, non avrebbe mai ceduto alla tentazione di approfittare della quasi inesistenza di un’opposizione rilevante per regalare al paese dodici anni filati di governi conservatori dal 2010 (quando David Cameron ruppe il predominio laburista creato e inaugurato nel 1997 da Tony Blair). «Ma se non ora quando?» le avranno ripetuto i suoi da mesi, prefigurando il bengodi di un dominio della durata di una generazione, complice l’uninominale secco vigente nella «madre di tutti i parlamenti».

Inoltre May, già ministro dell’interno nel precedente governo a guida Cameron, è subentrata alla guida di partito e paese dopo la débâcle dello stesso Cameron e l’omicidio-suicidio politico della coppia Gove-Johnson. Dunque è lei stessa «non eletta». È probabile siano bastate queste due motivazioni, oltre naturalmente all’ufficiale – «Mi serve una forte maggioranza per gestire il negoziato Brexit» – a far sì che l’istinto killer del politico di professione prevalesse sulla morigeratezza e il decoro della figlia del pastore (anglicano). Oltre alla prospettiva di ingollarsi quasi tutti i voti di un Ukip allo sfascio dopo essersi così efficacemente appropriata delle loro politiche.

Una vittoria annunciata quindi? Anche i sondaggisti, ustionatisi più volte dalle ultime cocenti cantonate, invitano alla prudenza. Con Scozia e Irlanda del Nord assorbite nelle rispettive questioni nazionali, la maggioranza andrà ricercata soprattutto in Inghilterra e Galles dove, tutto sommato, il Labour ha ancora alcuni collegi solidi. E la scelta di Corbyn di non avversare la Brexit, immancabilmente vituperata dai soloni liberal nazionali e non, potrebbe rivelarsi tutt’altro che catastrofica.

Venendo a Tim Farron dei Libdem, queste elezioni sono naturalmente una scialuppa di salvataggio, essendosi appropriati del centrismo Labour con il proprio schierarsi inequivocabile contro la Brexit. Poi c’è naturalmente il 48% dei remainers, spalmati abbastanza uniformemente fra Tories e Labour e che potrebbero negare il proprio sostegno a un partito conservatore che ha strappato dalle mani di Nigel Farage la bandiera non solo della Brexit ma di una Brexit «dura», fuori cioè dal mercato unico.

Certo è che, in caso di trionfo di Theresa May, si profilerebbe ormai un’incolmabile deriva fra una Scozia nazionalista europeista e un’Inghilterra altrettanto nazionalista isolazionista.