Inquadrare la questione israelo-palestinese nel 2017 significa cominciare dalla fine dell’anno, dalla dichiarazione con cui il 6 dicembre Donald Trump ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele e ha ordinato il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv nella città santa. Un passo che ha inflitto un colpo durissimo al diritto internazionale in Medio Oriente e che la comunità internazionale è riuscita a parare solo in parte con l’approvazione della risoluzione contro la Casa Bianca approvata con ampia maggioranza dall’Assemblea Generale dell’Onu. In questi mesi l’escalation innescata dall’elezione di Trump si è prima manifestata prima nel tacito assenso dato dall’Amministrazione alla valanga di nuove costruzioni negli insediamenti coloniali israeliani.

Quindi il nuovo presidente Usa ha abbandonato il principio dei Due Stati (Israele e Palestina). Infine è giunta la dichiarazione su Gerusalemme a confermare che l’intenzione statunitense è quella di cercare una soluzione al “problema palestinese” fuori dalla legalità internazionale e in linea con la visione dell’attuale esecutivo israeliano. Per Trump e i suoi collaboratori l’accordo tra israeliani e palestinesi non va cercato solo al tavolo delle trattative bilaterali, piuttosto deve realizzarsi all’interno di una pace ampia tra lo Stato ebraico e gran parte dei Paesi arabi. Non sorprende che il premier Benyamin Netanyahu insista per rafforzare i legami, per ora segreti, con una parte del mondo arabo sunnita, in particolare con l’Arabia saudita.

Di fronte a ciò e alle politiche israeliane di occupazione, vecchie e nuove, i palestinesi restano divisi. L’accordo di riconciliazione tra Fatah, il partito del presidente Abu Mazen, e il movimento islamico Hamas, annunciato al Cairo dalle due parti a inizio autunno, resta al palo e ha scarse possibilità di successo.