La spiegazione dell’esito elettorale veneto è abbastanza semplice: la Lega vince, con Zaia, sapendo rappresentare sia il governo (locale e regionale) sia la protesta contro le politiche di Roma (e di Bruxelles).

La sinistra non riesce a fare né una cosa né l’altra, con Alessandra Moretti e la sua coalizione ma anche con le proposte alternative in campo. Sulla carta, il programma del centrosinistra veneto era il più avanzato da almeno vent’anni, mentre la candidata presidente, al di là di qualche gaffe e battuta discutibile, era accreditata di una certa efficacia comunicativa e di una certa concretezza politica (confermata dalle esperienze amministrative e dal curriculum elettorale vincente), mentre le forze aggregate coprivano un arco vasto (a fronte di una divisione del fronte avverso, con la scissione di Tosi).

Eppure non ha funzionato. Fuori coalizione, l’acuirsi del profilo controriformista del governo Renzi (tra Jobs Act, Italicum e scuola), aprivano uno spazio largo d’iniziativa. Neanche questo, però, ha funzionato. Le percentuali della sinistra dentro e fuori la coalizione sono le minime da sempre. La grandissima parte dello spazio politico tra governo e opposizione è stata saturata da Zaia (e, dal lato della protesta, anche dal M5S, malgrado il suo risultato sia fra i peggiori d’Italia).

Chi ha convinto Zaia? Un Veneto scosso dalla crisi, che vede segnali di ripresa ma che teme siano illusori, angosciato da cassa integrazione, licenziamenti, fallimenti, mutui, tassi d’interesse, crediti usurai, mercato del lavoro spietato, concorrenza d’impresa feroce, infrastrutture caotiche, stravolgimento del quadro ambientale e sociale nella non gestita «metamorfosi» in atto (per citare il titolo di un utile e recente libro di Daniele Marini, edito da Marsilio). Ma anche stanco da una richiesta inevasa di autonomia, di federalismo, un’istanza qui potentemente presente e che la sinistra assume solo quando la Lega cresce ma che viene poi dimenticata non appena la Lega declina (com’era accaduto negli anni scorsi, prima del truce ma formidabile rilancio salviniano).

Tutto ciò, nel travaglio del melting pot ribollente che significa soprattutto ignavia e iniquità delle politiche sull’immigrazione, che aprono spazi alla predicazione xenofoba e agli imprenditori politici della paura, un tempo i Gentilini e i Bossi oggi i Bitonci e i Salvini.

Zaia è la figura sintesi. La sinistra non ha saputo proporre un’alternativa perché non ha fornito risposte originali e concrete ma, al più, nell’azione di governo a Roma e spesso localmente, suggestioni o rivisitazioni «moderate» delle stesse ricette leghiste e liberiste. Certo, poi ci vuole anche la faccia tosta di Zaia, l’abilità a dipingersi come estraneo non solo giudiziariamente ma anche politicamente alla corruzione che ha segnato l’amministrazione da lui guidata (o di cui era il vice, con Galan) di cui lo scandalo Mose è solo il più eclatante esempio, così da porsi come l’uomo giusto per governare anche un Veneto giunto, dopo scandali e crisi, al suo «anno zero» (per citare un altro fresco libro importante, di Renzo Mazzaro, edito da Laterza).

All’anno zero del Veneto, e all’ora x di Venezia, l’ora in cui, il prossimo 14 giugno, al ballottaggio, per la prima volta da vent’anni la città rischia di passare in mano alla destra peggiore, la sinistra si presenta inquieta, insicura e divisa.
Si è detto della Regione. Nel capoluogo, lo scandalo Mose, con l’arresto del sindaco, il commissariamento del Comune e l’esplodere della sua crisi finanziaria (anche per gli effetti perversi del patto di stabilità), ha disarticolato il modello politico e amministrativo sviluppatosi dagli anni Novanta e ha rimescolato le forze, con il prevalere, a sinistra (ma anche a destra), di formazioni civiche che riposizionano l’offerta elettorale in termini più aperti e trasversali, a volte personalistici.

Anche a Venezia la sinistra ha cercato strade diverse sia dentro una coalizione che la leadership di Casson rendeva più naturale sia all’esterno. In entrambi i casi si è raccolto poco. Le proposte sono sembrate più residuali che innovative. Il ballottaggio tra Casson e Brugnaro è anche segnato da questa debolezza della sinistra, oltre che dalle ambiguità e difficoltà del Pd, come in Regione.

Se la forza aperta di Casson, oltre che il suo profilo integerrimo, riusciranno a unire il meglio dell’esperienza di governo della città e le forze che si sono sempre opposte al sistema corrotto con i movimenti e i percorsi «civici» che puntano a una virtuosa innovazione politica e amministrativa (e a un’idea di città all’altezza di questo iniziale terzo millennio di Venezia), oltre ad assicurarsi la vittoria creeranno le condizioni per un nuovo spazio politico, in cui la stessa sinistra, in forme inedite, potrà ritrovarsi e riavere forza e respiro.

L’anno zero del Veneto e l’ora x di Venezia coincidono e s’intrecciano, infine, con il complesso, agitato momento politico nazionale, di esso risentono ma ad esso, dalla città e dai territori, possono cominciare a rispondere in modo originale.