Di tutti i film di Christian Petzold, il regista di punta in quella nuova generazione tedesca comparsa negli anni Duemila, questo Phoenix – in Italia col titolo Il segreto del suo volto, dal romanzo Le retour des cendres di Hubert Monteilhet – è quello che più rimanda all’esperienza di Haroun Farocki, magnifico artista scomparso all’improvviso lo scorso luglio, sceneggiatore di quasi tutti i suoi film, e prima suo maestro alla Scuola di cinema di Berlino (la stessa che oggi gli studenti chiedono di salvare da tecnicismo e burocrazia della Germania merkeliana), e che anche Farocki ha frequentato negli anni Sessanta quando venne inaugurata.

 

 

E questo anche se ogni film di Petzold nelle sue linee di messinscena, sempre lucidamente raffinate, si riferisce al cinema del suo Paese, quasi a tracciare una Storia che passa per l’immaginario – e non solo cinematografico. Era la Germania est della Stasi così come ce la mostravano i film dissidenti e non nel precedente Barbara, sono in questo il cabaret di Weill e Brecht, la dolcezza disperata delle eroine fassbideriane che inietta nella sua protagonista, a cui dà ancora una volta corpo – sofferto e sbilenco – la musa petzoldiana (splendida attrice) Nina Hoss. Ma anche il Fritz Lang di Una donna sulla luna (Frau im Mond, 1929), scritto dalla moglie di Lang, Thea von Harbou che entrerà nel partito nazista, e naturalmente Vertigo-La donna che visse due volte di Hitchcock. La protagonista Nelly, infatti, come la Madeleine hitchockiana (seppure in senso opposto) è una «revenant», uno spettro di sé stessa che ritorna al mondo diventando un’altra. Al tempo stesso Petzold che in questo magnifico film conferma ancora una volta il suo talento, non si limita alla «citazione», la sua immagine è geometria emozionale che spiazza e stride contro ogni retorica (e iconografia) del Bene e del Male.
Siamo nella Berlino occupata dagli americani alla fine della guerra, una città in macerie nella quale si sopravvive cancellando ogni traccia del passato; il nazismo, lo sterminio dei campi di concentramento, i milioni di morti, ebrei e non solo ai quali nessuna resistenza interna si è opposta. Quel vuoto sarà poi lo stesso contro il quale lotteranno negli anni Sessanta i figli della guerra, quei bambini cresciuti – la generazione di Farocki appunto o di Fassbinder – che non possono accettare un Paese in cui troppo poco è stato messo in discussione, e che ha ricostruito senza nessuna esigenza di consapevolezza.
Nelly (Hoss) è sopravvissuta alla deportazione, è viva anche se devastata nell’anima e col viso sfigurato da ustioni profonde. Nell’ospedale in cui le ricostruiranno il volto il medico le chiede di sceglierne uno ispirato a un’attrice famoso, ma Nelly vuole solo tornare come prima, vuole essere se stessa anche se questo può fare male, e se in quella Germania le sarebbe più utile sembrare un’altra. I suoi amici, la famiglia sono tutti morti. Nelly è ossessionata dal ricordo del marito, musicista come lei che era una cantante famosa e vuole ritrovarlo. «Solo il pensiero di Johnny ( Ronald Zehrfeld,) mi ha aiutata a sopravvivere» dice all’amica, attivista sionista che pianifica per entrambe di emigrare in Israele. L’uomo l’aveva nascosta, protetta anche quando tutti avevano cominciato a allontanarsi. Ma è davvero così? E se fosse stato lui a denunciarla ai nazisti e a farla arrestare?
I due si incontrano in un locale per soldati americani, luogo irreale di pericoli e perdizione, il Phoenix appunto, ma lui non la riconosce e le chiede, vista la somiglianza di diventare Nelly per riscattare l’eredità della donna. Le insegna a imitare la sua scrittura, a camminare, pettinarsi, vestirsi come lei, e la ricostruzione della società tedesca coincide così con quella del viso di Nelly e della sua identità. Ma questo doppio piano narrativo, che costituisce il movimento del film è in opposizione, stridente, terribile, come ogni smascheramento. Il romanzo di formazione di Nelly non coincide con quello della Germania, lei saprà e potrà solo mostrare la sua consapevolezza, gli altri no, perché complici anche solo con la loro indifferenza.
Petzold entra nella Storia con la potenza del melodramma a sfumature noir di un’illusione che è il bisogno disperato della donna di credere che qualcosa, almeno l’amore, si sia salvato. E per questo è disposta a tutto, anche a nuove umiliazione, a tornare a essere prigioniera, a negare sè stessa in quel corpo che ha conosciuto la disumanizzazione.
Ma se il suo sguardo coincide con quello della protagonista, Phoenix non è un film sullo sterminio o sul nazismo; ciò che il regista mette al centro, e con forza disturbante, è l’anno zero della Germania, e la vertigine di fronte alla Storia di chi non vuole sapere, ascoltare chi è tornato, nemmeno «riconoscerlo» perché significherebbe riconoscere le proprie colpe.
Distogliere lo sguardo può certo essere una strategia di salvezza, l’accanimento con cui Nelly vuole credere all’uomo che ama, perché il dolore ti schianta come accade all’amica, determinata e battagliera che si sparerà un colpo in testa, lei che conosce non sopportando più tanto orrore. Ma distogliere lo sguardo, visto che è la Germania, coloro che sono stati nazisti e che osservano Nelly/Petzold significa «dall’altra parte» rimuovere ogni colpa, alle orecchie e agli occhi di Nelly – Nina Hoss rende con impressionante violenza la fisicità del trauma – ogni tono di voce, ogni sguardo, ogni sorriso davanti a lei ebrea che solo poco prima era da condannare riportano al nazismo. Chi erano poco prima quegli uomini e quelle donne che oggi sembrano sorridere indifferenti? Per questi perfetti esecutori della ricostruzione, lei e quelli come lei rappresentano un insulto, una sberla, una presenza insopportabile. Mi chiederanno dei campi, dice Nelly al marito interpretando se stessa. Invece no, perché nessuno vuole sapere.