In fondo poteva andare peggio: potremmo riassumere così il bilancio dell’Associazione Italiana Editori su «questo 2022, un anno che speravamo normale», titolo del primo incontro professionale alla fiera della piccola e media editoria «Più libri più liberi», dedicato al mercato editoriale negli ultimi dodici mesi. E in effetti, con quello che è successo da gennaio a oggi, registrare un calo di vendite che non arriva al 2 per cento può rappresentare quasi un successo o una «sostanziale tenuta», come l’ha definita il presidente dell’Aie Ricardo Franco Levi. Tutto bene, non fosse che «la scelta responsabile degli editori di mantenere invariati i prezzi di copertina» ha di certo avuto un impatto sulle casse delle case editrici i cui effetti appariranno evidenti nel 2023, un anno sulla cui «normalità» nessuno scommetterebbe due centesimi.

Del resto, anche negli Stati Uniti, dove pure le cifre disegnano un quadro più solido, c’è chi parla del 2022 come di «un anno incredibilmente difficile per l’editoria libraria»: così infatti Ben Schrank, direttore operativo della casa editrice Astra, ha giustificato giorni fa la decisione di chiudere repentinamente la rivista – denominata anch’essa «Astra» – che la sigla editoriale aveva lanciato lo scorso aprile. Rivista insolita, scrive sul «New York Times» Kate Dwyer, se non altro perché almeno in partenza i denari non mancavano: «Astra – osserva Dwyer citando la direttrice Nadja Spiegelman – non era stata pensata come un’operazione per fare soldi, ma come un veicolo di prestigio per la casa editrice, braccio statunitense del gruppo editoriale cinese Thinkingdom Media Group». Insomma, un lussuoso biglietto da visita di 192 pagine a colori tirato in migliaia di copie, e dotato di un’imponente rete di collaboratori retribuiti, tra i quali Ada Limón, poetessa laureata statunitense, e Ottessa Moshfegh, il cui Il mio anno di riposo e oblio (Feltrinelli 2020) è stato molto apprezzato anche da noi.

Ma a quanto pare la situazione globale dell’editoria non consente costosi sfoggi di vanità, tanto più se questi sfoggi prendono la forma di una rivista culturale. Su questo punto si sofferma Dwyer, ricordando che «storicamente le riviste letterarie hanno funzionato come luoghi di sperimentazione e documentazione in tempo reale della sensibilità di un momento».
È ancora possibile oggi svolgere questo ruolo? In alcuni paesi, nota la giornalista, sono gli editori (da Gallimard in Francia a Kodansha in Giappone) a gestire riviste letterarie «come laboratori per la letteratura d’avanguardia». Quanto agli stessi Stati Uniti, «pubblicazioni come The Yale Review, The Hopkins Review e The Kenyon Review sono sostenute da università», mentre in altri casi l’appoggio viene da fondazioni e donatori privati. Ma la sorte delle riviste americane si rivela – caso Astra a parte – precaria, come dimostrano le peripezie di «The Believer», passata di mano in mano e ora, forse, in via di rilancio grazie al suo primo editore, McSweeney’s.

Né la situazione è diversa in Italia, dove di rado si parla con serietà del travagliato rapporto fra cultura e denaro. Ora, però, uno spunto può venire proprio da una rivista culturale online, «Snaporaz», che uscirà allo scoperto domani e che (citiamo dalla pagina di presentazione) «retribuisce tutti i suoi collaboratori e per questo motivo sarà presto accessibile solo su sottoscrizione».
Nutrito il sommario iniziale (Lagioia, Starnone, Ventura, Corsalini, Cavaliere sono le prime firme in cui ci si imbatte), ineccepibile il gruppo degli ideatori, tra cui spiccano i nomi di Gianluigi Simonetti e Filippo D’Angelo. Ma basteranno firme e nomi a contrastare la ben radicata idea che (la cultura) «non si paga, non si paga»?